I Tipici

I Tipici

Marrone di San Zeno DOP

Per gli agricoltori della zona la castanicoltura ha rappresentato per lunghi secoli una risorsa economica importante. I primi riferimenti storici sulla coltivazione del castagno risalgono, infatti, al Medioevo. Testimonianze scritte sulla coltivazione del Marrone di San Zeno si ritrovano nel XIII, XIV, XV II e XIX secolo. In questi testi vengono individuate le zone caratteristiche di produzione e descritto il prosperoso sviluppo dei castagni e i metodi di raccolta e commercializzazione dei marroni sui mercati settimanali, tradizione che ha ripreso vigore nel secondo dopoguerra.Nelle zone di montagna i marroni hanno rappresentato per secoli uno dei principali alimenti: oltre che consumati come frutti, con la farina si preparavano anche pane, pasta, dolci e polenta. I frutti freschi erano arrostiti nella particolare padella forata e, accompagnati al vino nuovo, diventavano emblema della festa di ringraziamento per l’annata agricola, dedicata a San Martino. Come in altre parti del Veneto anche in questi territori, la festa era legata alla prima questua annuale e al rito deimorti, in occasione del quale si confezionavano anche particolari biscotti con la farina di castagne.Testimonianze scritte della coltivazione del Marrone di San Zeno risalgono al XIII secolo e successivi; esse individuano le zone tipiche di produzione, anche attraverso gli estimi catastali, e descrivono il prosperoso sviluppo dei castagni, nonché i metodi di raccolta. La commercializzazione dei marroni avveniva già dalla fi ne del secolo XIX per via diretta, tramite negozianti, oppure sul mercato settimanale di Caprino Veronese, o su quello di Verona; questa tradizione ha ripreso vigore nel secondo dopoguerra. fonte Venetoagricoltura.it

I Tipici

Capocollo di Calabria DOP

Capocollo è il nome che nelle regioni del Centro e del Sud Italia viene dato alla coppa, derivando infatti dallo stesso taglio anche se le lavorazioni sono diverse: in Puglia per esempio si lava con una mistura di vino cotto e spezie e si sottopone ad una lieve affumicatura; in Umbria invece lo si aromatizza con pepe, aglio, coriandolo e semi di finocchio, mentre in Basilicata va cosparso con peperoncino tritato e, fino a poco tempo fa, lasciato stagionare nella tela grezza. Sono del ‘600 le prime documentazioni sulla lavorazione delle carni suine in Calabria, ma le loro origini risalgono al periodo della colonizzazione greca delle coste ioniche. La DOP regolamenta i “Salumi di Calabria: Soppressata, Capocollo, Salsiccia e Pancetta” prescrivendo per tutti l’uso delle razze tradizionali di taglia grande quali la Calabrese o la Large White e la Landrace, alimentati per almeno il 50% con orzo, favino, mais, ghiande e ceci. Il capocollo è preparato con le carni della parte superiore del lombo dei suini, disossato, salato a secco e stagionato per almeno di 100 giorni in locali a temperatura e umidità controllate. Di forma cilindrica, avvolto in pellicola naturale , viene legato a mano in forma avvolgente con spago naturale. Alla vista presenta un colore roseo o rosso più o meno intenso per la presenza di pepe nero o peperoncino rosso macinato. La fetta, al taglio, si presenta di colore roseo vivo con striature di grasso proprie del lombo suino. Il sapore è delicato che si affina con la maturazione; il profumo è caratteristico e di giusta intensità.

I Tipici

Formaggio di fossa di Sogliano DOP

L’uso di infossare, per conservare i prodotti e proteggerli dalle razzie dei soldati, si diffuse a partire dal Medioevo nelle valli del Rubicone e del Marecchia, a cavallo della Romagna e delle Marche. Questa DOP deve le sue peculiarità proprio al tipo di stagionatura cui è sottoposta, oltre che alla materia prima che nei sotterranei va a rifermentare. Dopo una maturazione di almeno 30 giorni, le forme – dentro sacchi di tela su cui è stato scritto, con olio di lino e nerofumo, il nome del proprietario e il peso – stagionano nelle fosse scavate nel tufo, ad una temperatura di 20° e un’umidità del 90%. La sfossatura ha luogo dopo 3 mesi, il 24 novembre, giorno della festa di Santa Caterina. Descrizione:  Ricavato da latte intero, ha la forma di un cilindro irregolare, la cui crosta compatta non si distingue dalla pasta friabile, di colore bianco ambrato o leggermente paglierino. L’odore è caratteristico e persistente, con ricchi aromi che ricordano il sottobosco e sentori di muffa e di tartufo. Il sapore, delicato e dolce all’inizio, varia con il progredire della stagionatura a seconda della composizione: il pecorino ha gusto aromatico e sapore fragrante, intenso e gradevole, leggermente piccante; il vaccino è fine e delicato, moderatamente salato e leggermente acidulo, con una punta di amaro; il misto ha sapore gradevole ed equilibrato tra il saporito e l’amabile con sentori amarognoli. Ottimo da solo o accompagnato con miele e confetture di frutta, vini rossi pregiati, passiti e Marsala, viene spesso utilizzato nelle minestre romagnole (cappelletti, passatelli, ecc.) o spolverato sopra primi e secondi piatti. Disciplinare:  Reg. CE n. 1183 del 30.11.09 (GUCE L 317 del 03.12.09)

I Tipici

Melannurca Campana IGP

La “Melannurca Campana” IGP è presente in Campania da almeno due millenni. La sua raffigurazione nei dipinti rinvenuti negli scavi di Ercolano e in particolare nella Casa dei Cervi, testimonia l’antichissima legame dell’Annurca con il mondo romano e la Campania felix in particolare. Luogo di origine sarebbe l’agro puteolano, come si desume dal Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Proprio per la provenienza da Pozzuoli, dove è presente il lago di Averno, sede degli Inferi, Plinio la chiama “Mala Orcula” in quanto prodotta intorno all’Orco (gli Inferi). Anche Gian Battista della Porta, nel 1583, nel suo “Pomarium”, nel descrivere le mele che si producono a Pozzuoli cita testualmente: (… le mele che da Varrone, Columella e Macrobio sono dette orbiculate, provenienti da Pozzuoli, hanno la buccia rossa, da sembrare macchiate nel sangue e sono dolci di sapore, volgarmente sono chiamate Orcole…). Da qui i nomi di “anorcola” e poi “annorcola” utilizzati nei secoli successivi fino a giungere al 1876 quando il nome “Annurca” compare ufficialmente nel Manuale di Arboricoltura di G. A. Pasquale. Tradizionalmente coltivata nell’area flegrea e vesuviana, spesso in aziende di piccola dimensione e talora in promiscuità con ortaggi ed altri fruttiferi, la “Melannurca Campana” IGP si è andata diffondendo nel secolo scorso prima nelle aree aversana, maddalonese e beneventana, poi via via nel nocerino, nell’irno, i picentini e infine in tutta l’area dell’alto casertano. Proprio qui, già da alcuni decenni, con la regressione delle superfici agricole dell’area napoletana a causa della conurbazione delle zone costiere, ha trovato il territorio ove essa è più intensamente coltivata. L’Indicazione geografica protetta “Melannurca Campana” si riferisce ad una delle varietà italiane di melo più conosciute e più apprezzate in assoluto dai consumatori: l’Annurca. Definita la “regina delle mele”, infatti, l’Annurca è da sempre conosciuta soprattutto per la spiccata qualità dei suoi frutti, dalla polpa croccante, compatta, bianca, gradevolmente acidula e succosa, con aroma caratteristico e profumo finissimo, una vera delizia per gli intenditori. Il frutto è medio-piccolo, di forma appiattita-rotondeggiante, leggermente asimmetrica, con picciolo corto e debole. La buccia, liscia, cerosa, mediamente rugginosa nella cavità peduncolare, è di colore giallo-verde, con striature di rosso su circa il 60-70% della superficie a completa maturazione, percentuale di sovraccolore che raggiunge l’80-90% dopo il periodo di arrossamento a terra. La “Melannurca Campana” IGP rivendica da sempre virtù salutari: altamente nutritiva per l’alto contenuto in vitamine (B1, B2, PP e C) e minerali (potassio, ferro, fosforo, manganese), ricca di fibre, regola le funzioni intestinali, è diuretica, particolarmente adatta ai bambini ed agli anziani, è indicata spesso nelle diete ai malati e in particolare ai diabetici. Anche per l’eccezionale rapporto acidi/zuccheri, le sue qualità organolettiche non trovano riscontro in altre varietà di mele. Una recente ricerca del Dipartimento di scienza degli alimenti dell’Universià di Napoli Federico II ha dimostrato che la mela Annurca dimezza i danni ossidativi alle cellule epiteliali gastriche. La sua azione gastroprotettiva dipende dalla ricchezza in composti fenolici, che sono in grado di prevenire così i danni ossidativi dell’apparato gastrico e aiutando a combattere le malattie gastriche legate all’azione di radicali liberi. Uno degli elementi di tipicità che certamente caratterizzano la “Melannurca Campana” IGP è l’arrossamento a terra delle mele nei cosiddetti “melai”. Essi sono costituiti da piccoli appezzamenti di terreno, sistemati adeguatamente in modo da evitare ristagni idrici, di larghezza non superiore a metri 1,50 su cui sono stesi strati di materiale soffice vario: un tempo si utilizzava la canapa, oggi sostituita da aghi di pino, trucioli di legna o altro materiale vegetale. Per la protezione dall’eccessivo irraggiamento solare i melai sono protetti da apprestamenti di varia natura. Durante la permanenza nei melai i frutti sono disposti su file esponendo alla luce la parte meno arrossata, vengono poi periodicamente rigirati ed accuratamente scelti, scartando quelli intaccati o marciti. E’ proprio questa pratica, volta a completare la maturazione dei frutti adottando metodi tradizionali e procedure effettuate tutte a mano, ad esaltare le caratteristiche qualitative della “Melannurca Campana” IGP, conferendogli quei valori di tipicità che nessun altra mela può vantare. Due gli ecotipi previsti dal disciplinare di produzione, con due distinte indicazioni varietali in etichetta: l’ “Annurca” classica e la diretta discendente “Annurca Rossa del Sud”, suo mutante naturale, diffuso nell’area di produzione da oltre un ventennio, che ha il pregio di produrre frutti a buccia rossa già sulla pianta. I frutti di maggior pregio, soprattutto dal punto di vista organolettico, a detta degli esperti sono quelli provenienti da piante innestate su franco, allevate a pieno vento e con scarsi apporti irrigui. Le indubbie caratteristiche organolettiche di questa mela, finora apprezzate soprattutto dai consumatori meridionali, stanno progressivamente conquistando anche altri mercati, grazie anche al riconoscimento del marchio di tutela e all’ingresso nei canali della grande distribuzione organizzata. Accanto ai succhi, di grande valore nutritivo, ottimi sono anche i liquori ottenuti dalle annurche, così come i dolci (crostate e sfogliatelle su tutti, ma anche le mitiche e tradizionali “mele cotte” al forno). Di recente, attraverso un programma di educazione alimentare della Regione Campania, la “Melannurca Campana” IGP è proposta al consumo dei bambini in visita a Città della Scienza nella forma commerciale della “quarta gamma” (confezione sigillata di una mela sbucciata e affettata in grado di mantenere inalterata per giorni la freschezza e l’aroma). Mele al mieleLavare e asciugare le mele privandole del torsolo senza eliminare il fondo del frutto. Disporre le mele cosi’ tagliate in una pirofila colmandole dal foro centrale con un cucchiaio di miele. Innaffiare con vino bianco e infornare in un forno già caldo a 180° per circa 15 minuti. Spolverizzare con lo zucchero prima di servire

I Tipici

Testarolo della Lunigiana PAT

Il testarolo è un antico pane senza lievito (azzimo) di forma circolare, con basso spessore (circa 2-3 mm) e diametro di circa 40-45 cm. Ha aspetto consistente ma spugnoso e pasta di colore biancastro, tendente al marroncino. Esternamente, la parte venuta a contatto con il piano di cottura presenta colorazione bruno intenso, mentre la parte superiore ha il colore della mollica del pane casalingo, di cui peraltro conserva anche il profumo. Viene venduto sfuso nei forni e nei negozi di generi alimentari della Lunigiana e commercializzato a più ampio raggio in confezioni sottovuoto, che ne preservano le caratteristiche originarie. I Testaroli della Lunigiana sono una pasta di antica origine. Diffusi già ai tempi di Roma imperiale, sono diventati nel corso dei secoli un piatto di prim’ordine della cucina regionale Toscana, semplice e genuina. Ancora oggi vengono realizzati con gli stessi pochi ingredienti di allora: farina, acqua e sale. La farina di grano viene amalgamata con acqua tiepida e sale fino all’ottenimento di una pastella molto liquida. Si scaldano quindi i testi di ghisa o di ferro sul fuoco vivo e, una volta ben caldi, vi si stende sopra la pastella in modo da formare un disco circolare. Ogni disco viene coperto con un altro testo caldo per completare la cottura, che richiede pochi minuti. Ancora oggi per la produzione casalinga vengono utilizzati appositi locali, chiamati “gradili” e destinati sia alla produzione dei testaroli, sia all’essiccazione delle castagne. Il prodotto deve la sua tradizionalità al processo di lavorazione, che è rimasto invariata nel tempo (l’unica modifica riguarda il metodo di riscaldamento dei testi), e all’utilizzo di particolari attrezzi, i testi in ghisa, per la trasformazione. Il “testo” è un arnese a due componenti, la teglia, con bordo di 5-6 cm, e la cupola che viene utilizzato anche per la cottura di altri cibi. Nella preparazione del testarolo, la pastella viene a contatto solo con la facciata inferiore (testo “sottano”) dell’attrezzo, mentre la parte superiore della pastella si cuoce per irradiazione del calore proveniente dalla cupola coprente (testo “soprano”). Una volta cotto, il testarolo viene tagliato a quadratini e fatto rinvenire in acqua bollente “ferma”. Scolato, viene condito con olio extravergine di oliva e pecorino grattugiato o con pesto di basilico, pinoli, aglio e olio extravergine (pesto gentile).Il testarolo viene anche servito con formaggi freschi e molli o con salumi. È un piatto povero che veniva consumato soprattutto dai contadini, ed oggi è molto ricercato e apprezzato nei ristoranti della Lunigiana. I testaroli vengono prodotti sia a livello familiare, sia da forni e pastifici per la commercializzazione; si può stimare una produzione complessiva di 950-1000 quintali l’anno. La vendita avviene non solo nella zona d’origine, la Lunigiana, ma anche nel resto della regione e, in quantitativi modesti, nel resto d’Italia.

I Tipici

Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP

La coltivazione del Pomodorino del Piennolo sulle falde del Vesuvio ha senza dubbio radici antiche e ben documentate. Per limitarci alle testimonianze storiche più illustri, notizie sul prodotto sono riportate dal Bruni, nel 1858, nel suo “Degli ortaggi e loro coltivazione presso la città di Napoli”, ove parla di pomodori a ciliegia, molto saporiti, che “si mantengono ottimi fino in primavera, purché legati in serti e sospesi alle soffitte”.Altra fonte letteraria attendibile è quella di Palmieri, che sull’Annuario della Reale Scuola Superiore d’Agricoltura in Portici (attuale Facoltà di Agraria), del 1885, parla della pratica nell’area vesuviana di conservare le bacche della varietà p’appennere in luoghi ombrati e ventilati. Francesco De Rosa, altro professore della Scuola di Portici, su “Italia Orticola” del novembre 1902, precisava che la vecchia “cerasella” vesuviana era stata via via sostituita dal tipo “a fiaschetto”, più indicato per la conservazione al piennolo. Il De Rosa è anche il primo ricercatore che riporta in modo esaustivo l’intera tecnica di coltivazione dei pomodorini vesuviani, facendo intendere così che si stava sviluppando nell’area un’intera economia intorno a questo prodotto, dalla produzione delle piantine da seme alla vendita del prodotto conservato. Il “Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP” è uno dei prodotti più antichi e tipici dell’agricoltura campana, tanto da essere perfino rappresentato nella scena del tradizionale presepe napoletano.In realtà, in diversi territori della Campania, esistono raggruppamenti di ecotipi con bacche di piccola pezzatura, i cosiddetti “pomodorini”, che si distinguono tra loro per tipicità, rusticità e qualità organolettica. I più famosi da sempre sono però quelli tuttora diffusi sulle pendici del Vesuvio. Il “Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP” raggruppa vecchie cultivar e biotipi locali accomunati da caratteristiche morfologiche e qualitative più o meno simili, la cui selezione è stata curata nei decenni dagli stessi agricoltori. Le denominazioni di tali ecotipi sono quelle popolari attribuite dagli stessi produttori locali, come “Fiaschella”, “Lampadina”, “Patanara”, “Principe Borghese” e “Re Umberto”, tradizionalmente coltivati da secoli nello stesso territorio di origine. Le caratteristiche distintive, a livello tecnico-mercantile, del prodotto ammesso a tutela sono:allo stato fresco: frutti di forma ovale o leggermente pruniforme con apice appuntito e frequente costolatura della parte peduncolare, buccia spessa di colore rosso vermiglio, pezzatura non superiore a 25 g, polpa di consistenza elevata e di colore rosso, sapore vivace intenso e dolce-acidulo;conservato al piennolo: colore della buccia rosso scuro, polpa di buona consistenza di colore rosso, sapore intenso e vivace. I “piennoli” o “schiocche” presentano un peso, a fine conservazione, variabile tra 1 e 5 chilogrammi. Agli effetti dell’azione di tutela si è riscontrato che l’aspetto peculiare di tipicità che accomuna i pomodorini vesuviani è l’antica pratica di conservazione “al piennolo”, cioè una caratteristica tecnica per legare fra di loro alcuni grappoli o “scocche” di pomodorini maturi, fino a formare un grande grappolo che viene poi sospeso in locali aerati, assicurando così l’ottimale conservazione del prezioso raccolto fino al termine dell’inverno. Nel corso dei mesi il pomodorino, pur perdendo il suo turgore, assume un sapore unico e delizioso, che soprattutto i napoletani apprezzano particolarmente per preparare sughi prelibati ed invitanti. E’ appunto il sistema di conservazione al “piennolo” che, favorendo una lenta maturazione, consente altresì una lunga conservazione, con la conseguente possibilità di consumare il prodotto “al naturale” fino alla primavera seguente.

I Tipici

Pane di Altamura DOP

Il Pane di Altamura DOP ha un sapore unico e inimitabile, frutto della tipica lavorazione artigianale, tramandata dall’antica tradizione, ma anche delle specifiche condizioni climatiche e ambientali in cui viene prodotto. Il pane di Altamura e’ ufficialmente il primo prodotto in Europa a fregiarsi del marchio DOP nella categoria merceologica ”Panetteria e prodotti da forno”. DOP significa: “Denominazione Origine Protetta”, DOP Nel panorama degli oltre 1000 varietà di pane prodotti in Italia (fonte INSOR) solo il Pane di Altamura beneficia del riconoscimento DOP europeo. E’ prodotto solo all’interno della zona d’origine con grano raccolto esclusivamente nella zona d’origine. Ogni forma è garantita dal Consorzio di Tutela. Così, al momento della scelta siete certi che il Pane di Altamura è una deliziosa genuinità. Di Pane di Altamura così ce n’è uno solo. Il tipico Pane di Altamura dalle inconfondibili qualità alimentari, unico per fragranza e sapore: colore giallo, crosta croccante, mollica soffice e porosa, lunga conservabilità. Il pane di Altamura si ottiene dall’impasto di semola di grano duro rimacinata delle varietà appulo, arcangelo, duilio e simeto. Le sue origini sono antiche e legate al mondo e alle tradizioni contadine della zona. Il metodo di lavorazione e gli ingredienti sono ancora quelli utilizzati in passato: una matrice di lievito chiamato anche pasta acida, sale marino e acqua. La lievitazione è di tipo naturale e la cottura avviene in forni a legna. La forma del pane è piuttosto grande e tradizionalmente si presenta accavallata.Il pane di Altamura era particolarmente apprezzato per la sua capacità di resistere morbido, fragrante e gustoso per giorni e giorni, peculiarità che, unita alle componenti nutrizionali, ne faceva in passato l’alimento principe delle tavole degli agricoltori della zona. .  La denominazione di origine protetta “Pane di Altamura” è propria del pane ottenuto mediante l’antico sistema di lavorazione (a lievito madre o pasta acida-sale marino-acqua) e dall’impiego di semole rimacinate di varietà di grano duro coltivato nei territori dei comuni della Murgia nord-occidentale Il pane prodotto è considerato di qualità “unica”, perché derivato da ottimi grani duri, ottenuti in un ambiente con specifici fattori geografico-ambientali, da cui è caratterizzato il territorio della Murgia nord-occidentale e dall’impiego di acqua potabile normalmente utilizzata sul territorio   In passato il pane era impastato in casa e portato al forno dove, prima della cottura, veniva marchiato a fuoco con un ferro recante le iniziali del capofamiglia che aveva prodotto la pasta. Si utilizza anche secco per preparare un piatto povero tradizionale, la “cialled” fatto col pane bagnato in un brodo di verdure, cipolla ed aglio, condito poi con olio extravergine d’oliva e peperoncino.

I Tipici

Canestrato Pugliese DOP

La vocazione silvo-pastorale dell’Alta Murgia ha una storia millenaria che si intreccia con quella del canestrato pugliese, legato alla transumanza delle greggi da dicembre a maggio tra le montagne dell’Abruzzo e il Tavoliere delle Puglie. Tipico delle province di Foggia e Bari, deve il suo nome ai canestri di giunco, le cosiddette fiscelle, dentro i quali  trascorre la prima parte della stagionatura e che sono uno dei prodotti piú tradizionali dell’artigianato locale . Il suo nome deriva dai canestri di giunco pugliese, entro cui lo si fa stagionare, i quali sono uno dei prodotti più tradizionali dell’artigianato locale L’ arte casearia che dà origine a questo prodotto ha fatto sì che esso divenisse un alimento tipico con il marchio DOP con D.p.r. del 10 set. 1985 e a Denominazione di origine protetta nel 1996 con il reg. n.1107/96 Descrizione:  Formaggio stagionato a pasta dura non cotta prodotto esclusivamente con latte di pecora intero proveniente da una o due mungiture giornaliere. La crosta di colore marrone tendente al giallo, più o meno rugosa dura e spessa, viene trattata con olio di oliva miscelato ad aceto di vino. Il colore della pasta è di colore giallo paglierino più o meno intenso in relazione alla stagionatura, che i protrae da 2 a 10 mesi in locali freschi debolmente ventilati. La pasta ha struttura compatta alquanto friabile, discretamente fondente, e sapore piccante caratteristico piuttosto marcato. E’ un ottimo formaggio da tavola insieme a fave, pere o verdure crude in pinzimonio  e vini bianchi o rosati secchi quando è più giovane; accompagnato da sedano, cicoria, olive nere e ravanelli e servito, scheggiato dalla forma, insieme a vini rossi strutturati ed invecchiati, se è più stagionato. Ma trova la sua massima espressione, quando la maturazione non è inferiore a 6 mesi, grattugiato su piatti di pasta asciutta al ragú di carne o di involtini.  Disciplinare

I Tipici

Limone di Sorrento IGP

Di origini antiche, se è vero che la presenza di limoni nell’area sorrentina è certificata da documenti storici del 1500, il “Limone di Sorrento” IGP ha in effetti antenati genetici che risalgono addirittura all’epoca romana. Su numerosi dipinti e mosaici rinvenuti negli scavi di Pompei ed Ercolano sono raffigurati infatti limoni molto simili agli attuali “massesi” e “ovali sorrentini” che testimoniano l’utilizzo di tali frutti profumati sulle mense dei nostri avi latini. Ma le più importanti documentazioni sulla presenza di limoni nella zona risalgono all’epoca rinascimentale. Atti di vendita, dipinti, trattati di letteratura e di botanica ci raccontano dell’impiego dei limoni prodotti localmente per i più svariati usi, anche se dobbiamo attendere il 1600 per avere la certezza della coltivazione in forma specializzata, come risulta dagli atti dei locali Padri Gesuiti. Ancora oggi esiste uno dei primi fondi coltivati, nominato appunto “Il Gesù”, situato nella Conca di Guarazzanno, tra Sorrento e Massalubrense. Questa testimonianza avvalora la tesi che è proprio da questi due comuni della Penisola Sorrentina che hanno avuto origine i nomi della varietà da cui si trae il prodotto: “Ovale di Sorrento” e “Massese”. Citato nelle opere di Torquato Tasso, nativo proprio di Sorrento, Giovanni Pontano e Giambattista della Porta, il “Limone di Sorrento” arriva fino all’800, quando lo storico Bonaventura da Sorrento ne testimonia la spedizione in tutto il mondo, soprattutto attraverso i bastimenti diretti verso l’America. Si deve comunque alla tenacia e alle capacità dei produttori locali, che sono andate sviluppandosi nel corso dei secoli, se oggi disponiamo di un prodotto altamente selezionato e di assoluta qualità. E’ soprattutto grazie al loro impegno che lo stesso paesaggio è andato a conformarsi alle loro esigenze: i famosi terrazzamenti e le mitiche “coperture” dei limoneti, qui denominati a giusta ragione “giardini di limone”, connotano fortemente la penisola sorrentina e contribuiscono alla sua fama nel mondo. Le caratteristiche di qualità del “Limone di Sorrento” IGP sono esaltate dalle particolari tecniche di produzione, ancora legate alla coltivazione delle piante sotto le famose “pagliarelle”, stuoie di paglia che vengono appoggiate a pali di sostegno di legno, solitamente di castagno, a copertura delle chiome degli alberi, al fine di proteggerli soprattutto dal freddo e dal vento e per conseguire anche un ritardo della maturazione dei frutti, che rappresenta uno dei principali elementi di tipicità di questa produzione. Area di produzione Il “Limone di Sorrento” IGP viene coltivato in tutti i comuni della Penisola Sorrentina e precisamente: Massa Lubrense, Meta, Piano di Sorrento, Sant’Agnello, Sorrento, Vico Equense, oltre che nell’isola di Capri, con i due comuni Capri ed Anacapri. fonte regionecampania.it

Torna in alto