nell’Antica Roma

Il cibo nel tempo, nell'Antica Roma

Arrosto al sale e miele

Marco Gavio Apicio è stato un gastronomo dell’antica Roma, vissuto fra il I secolo ed il II secolo d.C.ai tempi di TiberioDescritto come amante dello sfarzo e del lusso, egli costituisce ad oggi la principale fonte sulla cucina romana. È una ricetta in cui emerge chiaramente il gusto antico di mescolare dolce e salato Una ricetta a prima vista da “prendere con le molle” ma il risultato è un arrosto sorprendentemente gustoso. Assaturam: assam a furno simplicem salis plurimi conspersam cum melle inferes Arrostire la carne in una pentola cilindrica aggiungendovi molto sale. Servi con miele Ingredienti: per 4 persone: 800 gr di arrosto di maiale, 250 gr di sale, 4 c di acqua, 2 c di miele Mescolare il sale con l’acqua e immergervi completamente l’arrosto che dovrà cuocere 2 ore a 200° in una pentola di creta bagnata con acqua. Togliere la crosta di sale, bagnare con miele fuso e. a pentola coperta, lascia riposare 10 minuti. tagliare e servire

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La giardiniera di Columella

Columella, nato da genitori romani nel 4 dC e morto intorno al 70 dC, è il più importante scrittore di agricoltura dell’epoca imperiale romanaIl suo De re rustica, in dodici volumi, ci è pervenuto completo e costituisce una fonte insostituibile di documentazione sull’agricoltura romana.Il De Re Rustica è dedicato da Columella a Publio Silvino, un agricoltore suo vicino di casa e costituisce probabilmente il trattato più moderno del pensiero di Columella, con cui noi nel XXI secolo siamo ancor oggi chiamati a fare i conti quando parliamo di fertilità, di sostenibilità dell’attività agricola o di prospettive alimentari globali.Sia Columella che Plinio nelle loro opere descrivono le piante che non dovevano mancare nell’ orto, in quanto utili per la tavola, per la farmacia di casa, per i riti domestici. Sulla tavola degli antichi comparivano i cavoli, le lattughe, la rucola, la cicoria, i cardi, il crescione, il coriandolo, il cerfoglio, l’ aneto, le carote, il sedano, l’ aglio, le cipolle, il papavero, l’agretto, la ruta, la bietola, il porro, le rape, i navoni, l’origano, la santoreggia, l’ indivia, il basilico, gli asparagi, la menta, la zucca, i cocomeri, i cetrioli, il rafano, la malva per citare quelle a noi quelle più familiari Giardiniera. Preparati l’aceto e la salamoia nel periodo dell’equinozio di primavera, bisognerà raccogliere e conservare le erbe: come cime e cavoli, capperi, steli di sedano, ruta, fiori di macerone con il loro stelo avanti che escano dalla capsula, e ancora piantine di ferula appena appena spuntate e tenerissime col loro stelo, fiori appena in boccio di pastinaca selvatica o coltivata col loro stelo, di vitalba, di asparago, di pungitopo, di tamno, di digitale, di puleggio, di nipitella, di ramolaccio, di battide col suo stelo: questo viene anche chiamato piede di nibbio; e ancora teneri steli di finocchio. Tutte queste erbe si conservano molto bene con un solo tipo di conditura, cioè con due parti di aceto e una di salamoia forte mescolate insieme ( Col. XII, 7). fonte beniculturali.it

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Basynias.. antenati degli struffoli napoletani

Dolcetti , dall’Antica Grecia a base di uova miele e noci, che si possono considerare antenati degli struffoli napoletani Ingredienti: 300 gr. di farina, 8 uova intere e 2 tuorli, 60 gr di strutto, 300 gr di miele, 4 fichi secchi, 12 noci sgusciate, chicchi di melograno, sale.Preparazione: Fare l’impasto di farina, acqua e strutto  e ricavarne bastoncini come grissini e tagliarli in pezzetti di 2 cm e rosolarli nel miele mentre si spezzettano i fichi e si tagliuzzano le noci unendoli ai chicchi di melograno. Una volta che i “pezzetti” sono croccanti e dorati si rotolano nel trito di fichi e noci e si dispongono su un piatto.

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Lumache ingrassate con latte

(Cochleas lacte pastas) Marco Gavio Apicio Prendere delle lumache di media grandezza, pulirle accuratamente, levare loro le membrane in modo che possano uscire e metterle in un contenitore in cui sia stato precedentemente versato del latte e del sale. Lasciare che spurghino per qualche giorno e una volta diventate talmente grosse da non poter più rientrare nel guscio, friggerle in olio ben caldo. Disporle quindi in un piatto da portata e servire in tavola dopo averle irrorate con del vino e qualche goccia di garum. (Apicio, De re coquinaria., libro VII)

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Le lasagne di Apicio

Nel IV Libro del De re coquinaria di Apicio ritroviamo le lagane cucinate in modo da trasformarle quasi in un emblema del “mangiar da ricchi”. Sono infatti composte alternando strati di svariate polpe di carne e pesce, sminuzzate, bollite e insaporite con ogni ben di Dio, con strati di sfoglia: «quotquot posueris, tot trullas impensae desuper adficies» (quante sfoglie porrai, altrettanti ramaioli gettavi sopra di condimento). Infine «unum vero laganum fistula percuties, et superimpones» (una di quelle sfoglie spianala bene col mattarello e stendila sopra come coperta). Il testo apiciano si dilunga nella descrizione della preparazione degli impasti della carne e degli intingoli, ma non dice nulla a proposito di come si doveva procedere nella confezione delle lagane: questo dimostra indirettamente che all’epoca a nessuno era sconosciuto questo tipo di pasta né come si faceva. Sempre nel IV libro della sua opera Apicio ci fornisce un’informazione molto importante riguardo la pasta e in particolare riguardo la pasta secca. Egli suggerisce infatti di usare, a dire la verità come addensante, specie per il brodo, le tractae: «cum furberit, tractam confriges, obligas», quando bolle rompi una sfoglia di pasta e con questa addensa. E, nel Libro VIII, in una delle sue complicate ricette per stracotti, si accenna alle tractae, da sminuzzare nel sugo per infittirlo (“… tractam siccatam confringes et partitibus caccabo permisces”). Le tractae erano ottenute lavorando gli impasti di farina in modo che risultassero ben schiacciati e pressati e così lievitassero meglio. Il fatto poi che fosse una sfoglia da spezzare, non lascia dubbi: si tratta di una sfoglia secca, e perciò frantumabile. Ma si può fare anche un’altra deduzione e cioè che si trattasse di una sfoglia di semola di grano duro, poiché il termine tracta indica un grande sforzo di mani, sforzo che sarebbe stato certamente minore se si fosse impastato con farina di grano tenero. E forse queste tractae, usate da Apicio in modo per così dire indiretto, cioè in pietanze rese nobili e ricche da altri ingredienti, altro non sono che una versione povera delle lasagne, o meglio, di quelle stesse lagane che Orazio mangiava con porri e ceci. In: APICIO, De re coquinaria, Libro IV, Libro IX. E in: APICIO C., Delle vivande e condimenti, ovvero dell’Arte della cucina. Venezia (I), 1852. da: MONDELLI Mariaelena, Antico e vero come la pasta. Ricerca ragionata delle fonti storiche e documentali. Parma (I), 1998, p. 10; PORTESI Giuseppe, L’industria della pasta alimentare. Roma (I), Molini d’Italia, 1957, p. 12.

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La sarda farcita di Apicio

Diliscare la sarda, e tritare puleggio (mentuccia), comino, grani di pepe, menta, noci, miele. Riempire la sarda e cucirla. Avvolgerla nella carta e cuocerla sotto coperchio a piccolo fuoco. Condire con olio, vino dolce cotto e salsa di pesce. (A. IX, X, 1). Questa ricetta ricorda quella delle sarde ripiene alla palermitana. Le sarde diliscate vanno riempite con un trito di pinoli, uva sultanina, acciughe, pepe mescolato a del pangrattato e ad un po’ di zucchero. Allineate in una teglia vanno spruzzate di olio e passate in forno. fonte beniculturali.it

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