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La salvia

Il nome di questa pianta è di origine latina – Salus Salvus – che significa ”salute” , ”in buona salute” e ”sano”, con richiamo alle riconosciute proprietà curative e medicamentose. I Galli la consideravano una panacea capace di guarire tutte le malattie. I Druidi la usavano contro febbre, tosse, paralisi, epilessia e anche per favorire il concepimento e il parto attribuendole, altresì, il potere di resuscitare i morti ed aggiungendola all’Idromele e alla Cervogia (birra), per essere in grado di profetare e dare forza ai loro incantesimi. Presso i Romani era considerata pianta sacra che poteva essere raccolta da persone ‘’elette’’, vestite in un modo particolare, dopo aver fatto sacrifici con pane e vino, senza usare utensili di ferro perché tale metallo è incompatibile con la Salvia.Un trattato del medioevo recita che “Il desiderio della Salvia è di rendere l’uomo immortale” e Maria Treben racconta che, in un antico erbario, si scriveva che quando la S. Vergine dovette fuggire con il Bambino, chiese aiuto a tutti i fiori campestri, ma solo la Salvia le dette riparo sotto al suo folto fogliame per sfuggire agli sgherri di Erode. Quando il pericolo fu cessato, la Vergine disse con gratitudine alla Salvia che, per l’eternità, sarebbe stata la pianta preferita dagli uomini perché li avrebbe salvati da qualunque malattia e dalla morte. Chiamata “Salvia salvatrix” dalla Scuola Salernitana, anticamente si riteneva che favorisse la fertilità delle donne.Molto apprezzata dai Cinesi che la ritenevano capace di donare la longevità, nel 1600 un cesto di foglie di salvia veniva scambiata dai mercanti olandesi con tre cesti di Tè.L’antica medicina ne faceva largo uso come potente cicatrizzante su ferite e piaghe difficili da rimarginare.È originaria dell’Europa meridionale, in particolare nella regione mediterranea, viene anche coltivata commercialmente in vari paesi.Si dice che la salvia sia una delle piante preferite dalle api.Nel Medioevo le levatrici la usavano per favorire le contrazioni uterine durante i parti laboriosi. Proprio per questa sua caratteristica, non è consigliata alle donne in gravidanza.Sempre secondo le tradizioni, era utile contro i morsi di serpente.Alcuni detti popolari vogliono che nelle case dove la salvia cresce bella e forte sia la moglie a spadroneggiare, mentre se la pianta di salvia che si ha in giardino muore, gli affari andranno male. Si pensa che, come il rosmarino, stimoli la memoria e sia utile per il cervello in genere, un tempo era usata per alleviare le emicranie croniche. La salvia ha un gusto abbastanza pungente ed aromatico ad un sottile gusto di canfora.Viene utilizzata in vari modi: in Italia per saporire piatti di carne (in particolare vitello e fegato di vitello) o si fa soffriggere con il burro per condire primi piatti; i tedeschi la usano per insaporire le anguille e nei paesi mediterranei vengono infilate negli spiedini alternate a dadini di carne e verdura.Usata nella pasta dei formaggi o delle salsicce, la salvia tritata insieme alla cipolla viene impiegata anche nella preparazione di ripieni per il maiale ed il pollo. Frictelle de salvia del Maestro Martino

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Le fragole

Da reperti archeologici dell’epoca Preistorica sappiamo che già se ne cibavano le tribù primitive.Nei poemi come nella Bibbia, nelle favole mitologiche e nei più antichi trattati di medicina e botanica, si trovano elogi e menzioni di questo frutto. Virgilio le elogia in una sua celebre egloga, in cui invita i golosi fanciulli a guardarsi dai serpenti nascosti nell’erba, quando vanno nei boschi a raccogliere le “nascentia fragra”. Shakespeare, che ne era golosissimo, lo definisce “cibo da fate”.Nella storia sacra si parla spesso della fragola come alimento benefico e incomparabile dono di Dio. Si sa che era un cibo prediletto da San Giovanni Battista, convinto vegetariano, che si nutriva quasi esclusivamente di frutta, ma anche dall’austero San Francesco di Sales, che ne lodava la fresca innocenza e il meraviglioso sapore.La fragola ha avuto riconoscimenti da parte di medici,erboristi e naturalisti di ogni tempo.Plinio ne parla come di prezioso frutto del bosco da amare ed apprezzare; il grande Linneo, fondatore della moderna botanica, ma anche valente medico ed erborista, la definisce “bene di Dio”, affermando che, secondo la sua diretta esperienza, la fragola è incomparabile rimedio contro la gotta. Sembra che anche gli antichi romani conoscessero e apprezzassero questo frutto selvatico, che nel Medioevo, divenne addirittura il simbolo della tentazione.Le dame francesi di quell’epoca si procuravano le fragole dai contadini e si deliziavano nel mangiarle con zucchero e panna. Anche Luigi XVI, il re Sole, aveva una vera passione per le fragole, al punto da farle coltivare nei giardini di Versailies. Se è vero che la fragola era conosciuta fin dai tempi antichi, è anche vero che i tipi di fragole che sono oggi in commercio hanno un’origine abbastanza recente. Infatti fino al 1400 l’unico tipo di fragola esistente era quella selvatica; sembra che i primi tentativi di coltivazione risalgono proprio a quel periodo in Inghilterra, paese dove il frutto selvatico era particolarmente diffuso.Da notare che gli inglesi per tradizione sono golosissimi di fragole; le hanno anche nobilitate inserendo delle piante di fragole come ornamento in molte corone duttili.Dobbiamo però arrivare al ‘700 per trovare negli orti e nei giardini questo frutto, ingrediente prezioso e prelibato nelle preparazioni tipiche della cucina di quel tempo. La fragola moderna ebbe infatti origine in Francia, nel 1766, come incrocio tra due qualità selvatiche americane, la “Fragaria Virginiana” degli Stati Uniti orientali e la “Fragaria Chiloensis” della costa dei Pacifico. Il primo ibrido (“Fragola Ananassa”), più grande e più gustoso delle due piante madri, venne in seguito ibridato e reibridato. Nel 1892 Thomas Laxton, un coltivatore inglese, produsse da questa specie la squisita “Royal Sovereign”, ancora considerata la fragola dal sapore migliore.

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Il cioccolato

La sua storia e’ ricca e le sue origini prendono forma oltre 4000 anni fa.. La prima civilta’ a cadere in adorazione davanti alla cioccolata fu la popolazione olmeca dell’America centrale intorno al 1500 a.C. Per i Maya i semi del cacao furono simbolo di vita e fertilità, rappresentati spesso in rituali religiosi. Nella cultura Atzeca viene attribuita la creazione della pianta del cacao al loro dio Quetzalcoalt che, trasportato da una stella mattutina, discese dal cielo portando con se una pianta di cacao rubata dal Paradiso. Tanto nella cultura Maya che Atzeca i semi di cacao costituivano la base per una bevanda densa e amara denominata “xocoalt” o “elisir di lunga vita”. Veniva raccolto, lasciato fermentare, arrostito e macinato, mescolato con acqua, peperoncino e farina d’avena ..il risultato era una bevanda schiumosa e piccante. I semi erano simbolo di ricchezza e venivano usati come moneta di scambio: un uovo costava 3 semi. Il tesoro di Moctezuma, il re Atzeco, ne conteneva un miliardo. Gli Atzechi credevano che forza e saggezza traessero origine da questa bevanda che godeva pure fama di afrodisiaco. Pare che Moctezuma , per gustare questo prezioso nettare, usasse calici d’oro che venivano buttati dopo averli usati una sola volta… “rituale” che, pare, si ripetesse cinquanta volte al giorno! Il Vecchio Mondo conobbe questi “fagioli scuri” grazie a Cristoforo Colombo che al ritorno dell’ultimo viaggio li porto’ con se, insieme ad altre cose sconosciute e meravigliose..la Spagna arricchi’ con spezie, cannella, noce moscata, vaniglia, il gusto amaro del cacao e qualcuno decise che se servito caldo aveva un sapore migliore. Fernando Cortez non gradiva la bevanda ne’ calda ne’ fredda, ma quando nel 1519 conquisto’ il Messico la sua curiosita’ fu destata dal valore di questi semi usati come valuta e decise di farne una piantagione in nome della Spagna, pensando così di “coltivare soldi”. Per molti anni le navi tornavano dall’America colme di raccolto… la Spagna custodì il segreto del cacao per oltre cent’anni. Tant e’ che i bucanieri inglesi, che intercettavano le navi, distruggevano il carico pensando fosse inutile. In Francia il cacao arrivò attorno al 1650 quando la principessa Maria Theresa porto’ in dono di nozze a Luigi XIV un cofanetto di semi e la bevanda che fece conoscere fu definita dai francesi “ orribile miscuglio liquido e marroncino” Una mistura fredda chiamata “tlaquetzalli” (cosa preziosa) aveva un accentuata componente di peperoncino e sembra sia andata scomparendo e che non se ne siano state tramandate ricette ma alcune delle prime versioni europee della cioccolata derivano sicuramente da essa. L’arte e la letteratura si ispirarono spesso a linguaggi erotici evocati dal cioccolato ..dal Marchese de Sade a Casanova, che usava champagne e cioccolato per sedurre le signore. In Inghilterra arrivo’ dopo vent’anni quando un francese apri’ a Londra, il primo negozio. Attorno al XVII secolo era diventata una moda, uno status symbol per gli aristocratici, spesso raffigurati in dipinti dell’epoca che oziano con una tazza di cioccolata tra le mani. In Germania venne adirittura imposta una tassa ..” per chiunque decidesse render omaggio ai propri piaceri”. Nel 1820 le piantagioni di cacao erano sparse per tutto il globo ed ebbe inizio la produzione di macchinari e strumenti per renderlo il piu’ possibile commerciabile. Tecniche segrete di torrefazione, di miscela, ricette tradizionali o interpretazioni innovative e creative sono state tramandate di generazione in generazione. Il cioccolato evoca sensazioni di totale piacevolezza; e’ per il palato cio’ che il velluto e’ per il tatto…..piacevole e pigramente erotico; ogni senso di colpa e’ sopito da tale dolcezza.

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Il rosmarino

Originario dell’Europa, Asia e Africa, è ora spontaneo nell’area mediterranea nelle zone litoranee, macchia mediterranea, dirupi sassosi e assolati dell’entroterra, dal livello del mare fino alla zona collinare, ma si è acclimatato anche nella zona dei laghi prealpini e nella pianura padana nei luoghi sassosi e collinari. È noto in Italia anche col nome volgare di ramerino o ramerrino; il nome del genere deriva dalle parole latine ros (rugiada) e maris (del mare). I Romani fecero del rosmarino il simbolo dell’amore e della morte, Orazio infatti diceva: ” Se vuoi guadagnarti la stima dei morti, porta loro corone di rosmarino e di mirto”. Tuttavia non risulta che fosse utilizzato per condire i cibi. Si usava per aromatizzare il vino, che veniva appunto detto ‘vino al rosmarino’ e come è avvenuto per molte erbe è entrato nella cucina attraverso la via della medicina. Nel Trecento comunque già lo troviamo in uso e, come aroma, sembra essere molto utilizzato. l rosmarino fiorisce da Marzo ad Ottobre, è largamente diffuso ma cresce spontaneamente lungo le coste del Mediterraneo preferendo posti ben soleggiati e con terreno sabbioso. E’ un arbusto sempreverde, molto ramificato appartenete alla famiglia delle Labiate. Il fusto è legnoso; le foglie piccole, sottile e opposte, a forma di lancia con la parte inferiore color verde-grigio e quella superiore quasi argentea. I fiori sono raccolti in spighette terminali, racchiusi in corolle di colore azzurro o biancastro. Il frutto è una piccola capsula. In cucina è un’erba molto utilizzata per aromatizzare varie piatti e pietanze: arrosti, intingoli, piatti a base di patate, torte rustiche. Si usa nei patè di fegato, con l’agnello, il manzo, il coniglio, l’anatra e l’oca. Ottimo anche spolverato su pane e focacce. Comune nella cucina italiana ma di raro riscontro oltre confine. Pianta molto usata in cucina ha anche notevoli proprieta’ medicinali e afrodisiache. L’infuso e’ indicato in casi di vertigini, asma e inappetenza, mentre le foglie, oltre ad aromatizzarli, rendono i cibi piu’ digeribili. Focaccia al rosmarino 400 gr di farina, 15 gr lievito di Birra, 25 cl latte, 2 cucchiai Olio d’oliva, 1 cucchiaino zucchero, 2 rametti rosmarino, 2 cucchiaini sale fino, alcuni grani di sale grosso Sciogliete il lievito nel latte tiepido e con questo impastate la farina, olio, zucchero, sale e rosmarino tritato grossolanamente. Deve risultare una pasta morbida e liscia. Ungete una teglia e adagiatevi la pasta stesa a disco con il matterello. Con le dita pigiate qua e là la superficie e nell’incavo mettete due o tre grani di sale grosso. Spennellatela con l’olio e poi lasciatela riposare per un’oretta.Cuocete la focaccia in forno preriscaldato a 220 gradi per mezz’ora. Tagliatela a rettangoli e servitela tiepida.

a tavola con

Marcel Proust e le Madeleine

Buoni da pensare, i cibi, e anche da ripensare: sull’onda del sapore e dell’odore delle madeleines  i piu’ celebri pasticcini della storia della letteratura, Marcel Proust ha costruito i sette volumi della Recherche, monumento struggente al ricordo della sua infanzia e a un mondo irripetibile che stava scomparendo.E i medici, con incolpevole cinismo, hanno definito “ sindrome psicologica di Proust” il riflesso condizionato che l’odore di un cibo del passato desta nella memoria. Madeleine 125 g di burro, 130 g di zucchero, 150 g di farina, 3 uova,1/2 bustina di lievito,1 pizzico di sale una noce di burro Fate sciogliere il burro (a bagnomaria) e poi lasciatelo raffreddare  .Accendete il forno a 220° C. Sbattete le uova con lo zucchero e il sale. Aggiungete la farina, il lievito e il burro sciolto. Mescolate bene.Imburrate gli stampini a forma di madeleine e riempiteli con l’impasto.Infornate. Fate cuocere per 5 minuti, poi abbassate il forno a 200° e proseguite la cottura per 6-7 minuti.Sformate le madeleine e lasciarle raffreddare

a tavola con

Giuseppe Verdi e il suo risotto

Giuseppe Verdi, amante della buona tavola e  goloso raffinato, nella sua Villa di S’Agata riceveva spesso ospiti e colleghi. Villa Verdi è la casa che il compositore acquistò nel 1848 e in cui visse fino alla sua morte nel 1901.Si trova in un piccolo borgo, Sant’Agata, nel comune di Villanova sull’Arda a pochi chilometri da Roncole, dove è nato nel 1813, e Busseto dove ha vissuto dal 1824Chi visita la villa, intatta nel verde del parco lussureggiante, e ha la fortuna di entrare nella cucina, ha l’impressione che essa sia una vera “officina d’alta alchimia pantagruelica”.Luccicano i rami delle cento pentole, delle casseruole, degli stampi, delle forme, dei bricchi, uno svariato meraviglioso campionario come oggi è raro vederne e qui, gli ospiti ed i commensali potevano gustare le prelibatezze locali che venivano cucinate.Fra tutti i piatti che il Maestro preparava, il riso era consumato e amato ad ogni stagione.Nel settembre 1869 Giuseppina, la moglie, scriveva di Verdi a Camille Du Locle, l’impresario dell’Opéra di Parigi, il quale le chiese la ricetta del risotto che spesso il marito cucinavaEcco la ricetta di quel risotto per quattro persone : “Mettete in una casseruola due oncie di burro fresco; due oncie di midollo di bue, o vitello, con un poco di cipolla tagliata. Quando questa abbia preso il rosso mettete nella casseruola sedici oncie di riso di Piemonte: fate passare a fuoco ardente (rossoler) mischiando spesso con un cucchiaio di legno finchè il riso sia abbrustolito ed abbia preso un bel color d’oro. Prendete del brodo bollente, fatto con buona carne e mettetene due o tre mescoli (deux ou trois grandes cuilleres à soupe) nel riso. Quando il fuoco l’avrà a poco a poco asciugato, rimettete poco brodo e sempre fino a perfetta cottura del riso. Avvertite però, che a metà della cottura del riso (ciò sarà dopo un quarto d’ora che il riso sarà nella casseruola) bisognerà mettervi un mezzo bicchiere di vino bianco, naturale e dolce: mettete anche, una dopo l’altra, tre buone manate di formaggio parmigiano grattato rapè. Quando il riso sia quasi completamente cotto, prendete una presa di zafferano che farete sciogliere in un cucchiaio di brodo, gettatelo nel risotto, mischiatelo, e ritiratelo dal fuoco, versatelo nella zuppiera. Avendo dei tartufi, tagliateli ben fini e spargeteli sul risotto a guisa di formaggio. Altrimenti mettetevi formaggio solo. Coprite e servite subito”. Henri-Paul Pellaprat (1869-1952), discepolo del leggendario Auguste Escoffier, il padre della moderna cucina francese, dedico’ a Verdi proprio un risotto. Ingredienti per 4 persone½ cipolla affettata fine, 300 g di riso carnaroli, 60 g di burro, 80 g di funghi coltivati, 80 g di punte di asparagi, 80 g di Prosciutto di Parma, 80 g di pomodori pelati, 5 cl di panna da cucina, un litro di brodo di carne, 80 g di Parmigiano Reggiano grattugiato Pulire e tritare finemente la cipolla. Pulire e tagliare a fettine sottili i funghi. Pulire e sbollentare gli asparagi in acqua salata e farli raffreddare. Tritate finemente il prosciutto. Sbollentare i pomodori per togliere la buccia e i semi e tagliarli a dadini. In un tegame  sciogliere ¼ del burro, aggiungere la cipolla e cuocere lentamente fino a doratura. Aggiungere il riso e farlo tostare per circa 1 minuto. Aggiungere il brodo, poco alla volta, aspettando fino a quando non è stato assorbito prima di aggiungere il successivo; a metà cottura unire i funghi, il prosciutto, gli  asparagi e pomodori.    Mescolate bene e cuocere per altri 2 minuti e aggiungere la panna. Unire, quando il riso è “al dente”, il burro e il Parmigiano, quindi mescolare ancora e coprire con un coperchio. Lasciate riposare per 2 minuti e servire.

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La patata

In Europa le patate arrivarono solo nella metà del Cinquecento e in Italia si diffuse alla fine del ‘700 e vennero però considerate come un alimento malsano e apostrofate come cibo “capace di provocare effetti allucinogeni e di dare alle streghe il potere di volare”, adattissimo per il bestiame. Forse non tutti sanno che la patata, gustoso tubero dalle notevoli proprietà nutritive, ha delle origini antichissime. Originaria dell’America centrale e meridionale, in particolare di Perù e Cile,dove vivevano popolazioni particolarmente abili nelle coltivazioni d’alta quota, che sfruttavano i terrazzamenti e la possibilità d’irrigazione, e che più di 4000 anni fa addomesticarono per prime questa pianta, selezionandone un numero enorme di varietà.Si pensa che la patata sia uno dei prodotti scoperti e portati in Europa da Cristoforo Colombo ma egli si imbatté unicamente nella “patata americana”, in verità furono gli scambi commerciali avviati dai “conquistadores” a portare la patata prima dalla zona andina in Messico e, poi, nell’area dell’America Settentrionale che ora è denominata Virginia.In Europa arrivò solo nella seconda metà del Cinquecento, restando tuttavia solo una curiosità botanica poco conosciuta. Nel 1565, Filippo II di Spagna inviò al papa un certo quantitativo di patate, che, però furono scambiate per un genere di tartufi dal sapore disgustoso. Sempre in quel periodo, non furono comprese le qualità nutrizionali del tubero, ritenendo che la sua parte commestibile fossero le foglie. Giudicato un alimento malsano, la pianta, infatti, contiene solanina alcaloide velenoso, l’apostrofarono come cibo “capace di provocare effetti allucinogeni e di dare alle streghe il potere di volare”. La prima autentica descrizione scientifica della patata va attribuita al botanico olandese Charles de Lécluse, meglio conosciuto con il nome di Clusio, che nel 1588, a Vienna, dove soggiorna, riceve due tuberi inviatigli dal governatore di Mons, accompagnati da un acquerello (il primo ritratto ufficiale della patata, oggi al museo Plantin di Anversa). Il Clusio assaggia i tuberi, ne riconosce il sapore gradevole e vicino a quello delle rape e ne stende una minuziosa descrizione per la Raziorum plantorum istoria. Fu solo nel XVIII sec. che, grazie alla semplicità della sua coltivazione, la patata venne forzatamente utilizzata dai comandanti spagnoli e prussiani per sfamare i loro eserciti.Dopo la metà del’700, durante una guerra, il tubero finalmente incontrò chi l’avrebbe portato fuori dell’ambito militare. Si trattava del farmacista ed agronomo francese Parmentier Antoine-Augustin, che durante una prigionia ne apprezzò il sapore, constatando anche la sua facilità di crescita in terreni relativamente poveri.Tornato in patria, qualche anno dopo Parmentier propose la “pomme de terre” (patata) ad un premio per nuovi cibi contro la carestia, presentando il tubero come un pane già fatto che non richiedeva né mugnaio né fornaio.L’alimento suscitò grande interesse e fu così che, dopo la spaventosa carestia del 1785, Luigi XVI impartì l’ordine ai nobili di obbligare i propri contadini a coltivare la patata.I risultati non furono quelli sperati, perciò su consiglio di Parmentier, che orgogliosamente adornava il suo panciotto col fiore azzurro dalla pianta, il sovrano decise di dare seguito ad uno stratagemma.Si cominciò facendo coltivare delle patate al Campo di Marte, in un terreno guardato a vista dai soldati reali, per poi spargere la voce che lì si produceva una preziosità riservata al re. La cupidigia fece il suo corso, in molti si trasformarono in ladruncoli pur d’impossessarsi dei frutti proibiti, e durante la rivoluzione del 1789 la patata era già un cibo popolare. All’inizio dell’ottocento questo tubero plebeo trovò la sua consacrazione nella Haute Cuisine con le crocchette ideate da Antoin Caréme.La coltivazione della patata in Italia si diffonderà, a partire dalla fine del ‘700, in certe aree proprio a seguito delle campagne napoleoniche. Nel 1798, però, “La cuciniera piemontese” e più tardi, nel 1815, “Il cuoco piemontese” non hanno fatto ancora alcun cenno a ricette di patate.L’anno prima il letterato Cesare Arici (1782-1836), pubblicando a Brescia una delle sue opere più note, “La pastorizia”, ne segnalava così la presenza: Ecco l’eletto pomo a parte a parte ingenerarsi dell’Italia in seno e più sterilglebe abbracciar lieto… Cerere applaude e i molti usi ne addita. Insomma l’Arici, più che le patate fritte, vede ancora l’”eletto pomo” adattissimo per il bestiame: Vedrai per questo in pingue adipe avvolgersi Delle pecore i fianchi, e via più denso Dalle turgide poppe uscirne il latte…Alla quinta edizione de “Il cuoco galante”, invece, Vincenzo Corrado, già nel 1801, aggiungeva un “Trattato delle patate”, in cui presentava un ricco elenco di preparazioni: dalle patate in polenta, in crema, in polpette, in bignè, arrostite, ripiene al burro, e così via. Ed intuiva il prototipo, la prima ricetta delle ormai prossime venture “patate in gnocchi”, naturalmente da rivedere e da ridimensionare: Cotte che saranno al forno le patate, la loro più pulita sostanza si pesta con una quarta parte di gialli d’uova duri, altrettanta di grasso di vitello e anche di ricotta. Si unisce e si lega dopo con qualche uovo sbattuto, si condisce di spezie e si divide in tanti bocconi lunghi e grossi come un mezzo dito, i quali infarinati si mettono nel fuoco bollente, e bolliti per poco si servono nel piatto incaciati e conditi con sugo di carne .La vera ricetta, assai più semplice ed aggiornata degli gnocchi di patate – probabilmente d’origine piemontese, ma felicemente approdati in Liguria dopo l’annessione al Piemonte del 1815, a seguito del trattato di Vienna – la troveremo, insieme con quella del puré, chiamato ancora patate machees, nelle due “Cuciniere genovesi” con il battuto all’aglio (ovvero il pesto) e cacio parmigiano.Ancora oggi all’illustre agronomo Parmentier sono intitolate molte ricette in cui i tuberi figurano come elemento centrale o guarnizione predominante (es. pasticcio di carne Parmentier).

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Il basilico

Gli antichi egizi e i greci lo utilizzavano per le offerte sacrificali, ritenendolo di buon auspicio per l’aldilà. Viene citato da Plinio il Vecchio – che attribuisce alla pianta capacità di generare stati di torpore e pazziaI Galli coltivavano il basilico a luglio/agosto finché in fiore. Chi raccoglieva questa pianta sacra doveva sottoporsi a rigidi rituali di purificazione: lavarsi la mano con cui si doveva raccogliere nell’acqua di tre sorgenti diverse, rivestirsi di abiti puliti, tenersi a distanza dalle persone impure (ad esempio, le donne durante il periodo delle mestruazioni) e non utilizzare attrezzi in metallo per tagliare i fusti. Il basilico era considerato una pianta sacra in quanto lo si riteneva capace di guarire le ferite, come quelle di archibugio; era quindi un ingrediente, insieme ad altre 16 erbe, dell’acqua vulneraria, usata un tempo per applicazioni esterne.Elisabetta da Messina, eroina del Decamerone di Boccaccio, seppellì la testa del suo amante in un vaso di basilico annaffiandolo con le sue lacrime.Nelle miniature dei manoscritti del Medioevo, il basilico è il simbolo dell’odio e di Satana. Il folklore ebraico suggerisce che dia forza durante il digiuno. Una leggenda africana sostiene che il basilico protegge contro gli scorpioni.Il basilico sacro (Ocimum tenuiflorum) è una pianta venerata in molte tradizioni della religione hindu. Originario dell’Asia tropicale, fu coltivato inizialmente in Iran o in India e giunse attraverso il Medio Oriente in Europa, in Italia e nel sud della Francia. Nel XVII secolo iniziò ad essere coltivato anche in Inghilterra e, con le prime spedizioni migratorie, nelle Americhe. Il nome deriva dal greco βασιλεύς (basileus) “re”, e – in latino – basilicum, “reale”, per la grande rilevanza conferita a questa erba. Altre interpretazioni etimologiche legano il nome al basilisco, che si pensava generato, come gli scorpioni ed altri animali velenosi, da questa pianta. Il basilico è l’ingrediente base del pesto genovese, salsa tipica della cucina ligure, insieme ai pinoli e all’olio di oliva.Come erba aromatica fresca si usa per le insalate, con pomodori maturi, le zucchine, l’aglio, i frutti di mare, il pesce (triglia), le uova strapazzate, il pollo, il coniglio, l’anatra, le insalate di riso, le zuppe, la pasta e per le salse (salsa di pomodoro, vinaigrette).Il basilico è difficile da abbinare ad altre erbe aromatiche come il prezzemolo, il timo e il rosmarino.Si utilizza preferibilmente crudo perché non tollera le lunghe cotture che ne fanno rilasciare molecole cancerogene, estragone ed estragolo, e ne attenuano il profumo. Nelle pietanze calde, va aggiunto appena prima di servirle per conservare un sapore vivo e fresco. In frigorifero si può conservare al massimo per due giorni, bene avvolto in un canovaccio da cucina. Da secco perde completamente il suo profumo, conviene piuttosto congelarlo. Lo si può pestare in un mortaio per rompere le cellule che contengono l’olio essenziale e per liberare meglio l’aroma.Il basilico si trova commercializzato in mazzetti, che all’acquisto devono essere turgidi e verdi; può essere anche acquistato in vaso, cosa che ne permette l’utilizzo fino all’autunno.Il suo olio essenziale è utilizzato per la preparazione di profumi e liquori; dalla distillazione della pianta fresca si ottiene un’essenza contenente eucaliptolo ed eugenolo.

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La cannella

La cannella vanta una storia millenaria: era già citata nella Bibbia, nel libro dell’Esodo, era usata dagli antichi Egizi per le imbalsamazioni e citata anche nel mondo greco e latino. Importata in occidente con le carovane durante il medioevo, portò gli Olandesi a impiantare un traffico stabile con lo Sri Lanka nella prima metà del 1600, per divenirne i principali importatori d’Europa. È usata in molti modi differenti da secoli. La tradizione occidentale la preferisce impiegata nei dolci di frutta, specie di mele, nella lavorazione del cioccolato, di caramelle e praline, come aroma in creme, nella panna montata, nella meringa, nei gelati e in numerosi liquori. La tradizione orientale e creola la usa anche nel salato, in accompagnamento di carni affumicate e non. Entrambe la amano come aromatizzante del tè.La pianta è nativa dello Sri Lanka e la spezia che se ne ricava è la più fine e costosa I bastoncini interi di cannella vengono utilizzati in cucina quando tale spezia può essere infusa. Quindi, mentre si cuoce una conserva di frutta o una torta di mele, durante la preparazione del curry, di un piatto con riso speziato come il biriyani, oppure quando si fa il vin brulè è indicato l’utilizzo della cannella o della cassia in bastoncini. La fragranza è dolce, profumata, calda e con note piacevolmente legnose, senza traccia di retrogusto amarognolo o pungente La lavorazione della cannella nello Sri Lanka è probabilmente una delle arti che richiede maggiore abilità. Gli artigiani tradizionali oggi mostrano tale arte alle mostre di spezie ed è uno spettacolo affascinante da vedere

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