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Il pomodoro

Provate a confrontare il pallido squallore di un piatto di spaghetti “in bianco” con il caldo e acceso colore di un piatto di vermicelli “ca’ pommarola ‘n coppa”. Avrete la piu’ convincente dimostrazione di come la fantasia, l’estrosita’, e l’intelligenza dei popoli meridionali abbiano fatto, del pomodoro, il loro capolavoro. Il seducente ed invitante aspetto della polpa rossa, il sapore dolce-acidulo del frutto crudo e i diversi e gustosi sapori delle salse che da esso si ricavano, non hanno tuttavia evitato al pomodoro, al suo esordio in Europa verso la fine del secolo XVI, la stessa ostilita’ e diffidenza che gli europei avevano riservato a tutti gli altri numerosi membri della numerosa famiglia delle “solanacee” giunte dal Nuovo Mondo. Inizialmente fu paragonato alla mandragora le cui radici ricordano un corpo umano, a quel tempo era considerata dalla gente il “pomo del diavolo” ma al pomodoro riservarono il nome di “pomo d’amore” poiche’ veniva considerato afrodisiaco. Agli inizi del XVII secolo il pomodoro fu ammesso in Italia solo come elemento decorativo. Se della patata si pote’ affermare ancora nel 1780 che “solo un gusto crudo ed uno stomaco di cuoio si avvezzeranno alla patata”, del pomodoro si disse che provocava malesseri e disturbi tant’e’ che gli fu affibbiato il nome di Lycopersicum ovvero “pesca del lupo”. Il senese Pier Andrea Mattioli lo chiamo’ “pomo d’oro”, senza alcun riferimento alle qualita’ commestibili, ma solo perche’ i primi frutti giunti in Europa non erano rossi bensi’ gialli.Il botanico gastronomo Vincenzo Corrado (1734-1836), nel suo “Cuoco galante” pubblicato per la prima volta a Napoli nel 1773, lo descriveva come “frutto” color zafferano Trascorsero piu’ di due secoli prima che il selvaggio nome di “pesca del lupo” venisse cambiata nel mite e casereccio pronome di “esculentum” cioe’ mangereccio. L’impiego della pianta di pomodoro come ornamento dura per secoli ed essa si diffonde in tutto il bacino del Mediterraneo, trovando nel sud Italia il clima più adatto al suo sviluppo.La documentazione relativa all’origine del suo uso alimentare è scarsa: le prime sporadiche segnalazioni di impiego del suo frutto come alimento commestibile, fresco o spremuto e bollito per farne un sugo, si registrano in varie regioni dell’Europa meridionale del XVII secolo.Soltanto alla fine del Settecento la coltivazione a scopo alimentare del pomodoro conosce un forte impulso in Europa, principalmente in Francia e nell’Italia meridionale. Ma mentre in Francia il pomodoro viene consumato soltanto alla corte dei re, a Napoli si diffonde rapidamente tra la popolazione.Nel 1762 Lazzaro Spallanzani ne definisce le tecniche di conservazione notando, per primo, come gli estratti fatti bollire e posti in contenitori chiusi non si alterino.Nel 1809, un cuoco parigino, Nicolas Appert, pubblica l’opera “L’art de conserver les substances alimentaires d’origine animale et végétale pour pleusieurs années”, dove fra gli altri alimenti è citato anche il pomodoro .Negli Stati Uniti ed in genere nelle americhe, da cui proveniva, l’affermazione del pomodoro come ortaggio commestibile trova invece molte più difficoltà per la diffusa convinzione popolare dei suoi poteri tossici.Nel corso dell’Ottocento il pomodoro viene inserito nei primi trattati gastronomici europei, come nell’edizione del 1819 del Cuoco Galante a firma del cuoco napoletano di corte Vincenzo Corrado, dove sono descritte molte ricette con pomodori farciti e poi fritti: «Per servirli bisogna prima rotolarli su le braci o, per poco, metterli nell’acqua bollente per toglierli la pelle. Se li tolgono i semi o dividendoli per metà, o pure facendoli una buca».Nel 1839, il napoletano don Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nella “Cucina casarinola co la lengua napoletana”, in appendice alla seconda edizione della “Cucina teorico pratica”, fornisce la ricetta per una salsa: i pomodori bolliti, passati al setaccio, fatti restringere ulteriormente con sugna ed olio, sale e pepe, forniscono una salsa da mettere sopra il pesce, la carne, i polli, le uova e sopra ciò che si desidera.È nella stessa epoca che si realizza il connubio tra pasta e pomodoro e tra pizza e pomodoro.Nella seconda metà del secolo l’Inchiesta Jacini conferma come il consumo di pomodoro sia diffuso nell’Italia meridionale e soprattutto nella provincia di Napoli, dove è il condimento più utilizzato per i maccheroni e con essi è l’alimento più comune.L’apporto calorico del pomodoro, o più in generale il suo valore nutritivo, è quasi irrilevante ed esso è l’unica coltura al mondo di grande utilizzo priva di un preciso ruolo dietetico. Tuttavia il cambiamento delle abitudini alimentari nel Meridione anche a causa delle migliorate condizioni di vita hanno reso il pomodoro un condimento eccezionale.Al suo successo contribuisce la semplice conservabilità dei suoi derivati, esso è tuttavia largamente utilizzato anche fresco come contorno e nelle insalate.

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La pasta

Il vocabolo pasta viene dal termine păsta(m), dal greco πάστα con significato di ‘farina con salsa’ che deriva dal verbo pássein cioè ‘impastare’. Si attesta a partire dal 1310 anche se a cercare le origini della pasta, chiamata con altri nomi, si può tornare indietro fin quasi all’età neolitica (circa 8000 a.C.) quando l’uomo cominciò la coltivazione dei cereali che ben presto imparò a macinare, impastare con acqua e cuocere o seccare al sole per poterli conservare a lungo. La pasta è infatti un cibo universale di cui si trovano tracce storiche in tutto il continente euroasiatico. Acquisisce una posizione particolarmente importante in Italia e in Cina dove si sviluppano due prestigiosi filoni di tradizione gastronomica che si completano a vicenda ma di cui rimane difficile stabilire i rapporti proprio per la complessità dei percorsi intermedi. La testimonianza più antica, databile intorno ai 4000 anni fa, è data da un piatto di spaghetti di miglio rinvenuti nel nord-ovest della Cina sotto tre metri di sedimenti. L’invenzione cinese viene tuttavia considerata indipendente da quella occidentale perché all’epoca i cinesi non conoscevano il frumento caratteristico delle produzioni europee e arabe. In verità possiamo trovare tracce di paste alimentari già tra gli Etruschi, Arabi, Greci e Romani. Se, idealmente, il mito della pasta non si può non farlo cominciare da Cerere, dea delle messi e dei cereali, le sue prime tracce storiche emergono da una tomba etrusca di Cerveteri che si presenta ornata da un curioso motivo di coltelli, mattarelli e rotelle che sembrano quelle ancora oggi usate per la preparazione dei ravioli. E proprio gli Etruschi pare preparassero delle lasagne di farro, un cereale molto simile al frumento. Per il mondo greco e quello latino numerose sono le citazioni fra gli autori classici, fra cui Aristofane e Orazio, che usano i termini làganon (greco) e laganum (latino) per indicare un impasto di acqua e farina, tirato e tagliato a striscie. Queste lagane, ancora oggi in uso nel sud d’Italia, considerate inizialmente cibo dei poveri, acquisiscono tanta dignità da entrare nel quarto libro del De re coquinaria del leggendario ghiottone Apicio. Egli ne descrive minuziosamente i condimenti tralasciando le istruzioni per la loro preparazione, facendo supporre che fosse ampiamente conosciuta. La più importante novità del Medioevo per la costituzione della moderna categoria di pasta, fu l’introduzione di un nuovo metodo di cottura e di nuove forme. Il sistema della bollitura, usato nell’antichità solo per pappe o polente di diversi cereali, sostituì il passaggio al forno dove invece le antiche lagane erano poste direttamente con il condimento come liquido di cottura. Apparvero le paste forate e quelle ripiene; l’invenzione della pasta secca a lunga conservazione, attribuita generalmente agli arabi bisognosi di provviste per i loro spostamenti nel deserto, fu invece la novità che più influì nelle abitudini alimentari e nei commerci. Fu nel Medioevo che sorsero le prime botteghe per la preparazione professionale della pasta che dalla Sicilia, impregnata di cultura araba parallelamente al Levante spagnolo, già a metà del XIII secolo si installarono anche a Napoli e Genova, città che avranno poi grande partecipazione nell’evoluzione e nel successo delle paste alimentari. In un secondo tempo aprirono anche in Puglia e in Toscana e nel XIV secolo vennero costituite le prime corporazioni di pastai. La tecnica dell’essiccazione permise alla pasta di affrontare lunghi percorsi via mare o all’interno del continente per i quali si specializzarono i commercianti genovesi. Anche la Liguria divenne luogo di produzione di paste secche mentre l’Emilia-Romagna, la Lombardia e il Veneto rimarranno legati all’uso della pasta fresca che tuttora persiste. Oltre a croseti (pasta corta) e ancia alexandrina (pasta lunga), nel trecentesco Liber de coquina viene spiegato molto dettagliatamente il modo di fare lasagne e si consiglia di mangiarle con “uno punctorio ligneo”, un attrezzo di legno appuntito. In effetti, mentre nel resto d’Europa per mangiare si useranno le mani fino al XVII-XVIII secolo, in Italia si ebbe una precoce introduzione della forchetta più comoda per mangiare la pasta scivolosa e bollente introdotta nel sistema alimentare.  Solo nel quattrocentesco Libro de arte coquinaria di Maestro Martino si trovano le prime indicazioni tecniche per la preparazione dei “vermicelli”, “maccaroni siciliani” (per la prima volta il termine indica pasta corta forata) e “maccaroni romaneschi” (tipo tagliatelle). Le ricette dell’epoca prevedevano che la pasta fosse servita come contorno ad altre vivande e specialmente con la carne. Questo gusto, insieme a quello per la pasta scotta, si trova ancor oggi fuori dall’Italia dove invece nel ‘600 Giovanni del Turco comincia a consigliare una cottura più breve che lasci i maccheroni “più intirizzati e sodi”. Classico anche l’abbinamento con formaggio grattugiato, mai scardinato, neanche dall’abbinamento col pomodoro sperimentato e attestatosi tra fine ‘700 e primi ‘800. Alla fine del XVI secolo comparvero i primi pastifici a conduzione familiare nella città di Gragnano, favorita da particolari condizioni climatiche, come una leggera aria umida che permetteva la lenta essiccazione dei “maccaroni”. Con la crisi del settore tessile, dalla metà del XVII secolo la maggior parte dei gragnanesi venne impiegata nell’industria pastaia per la quale furono costruiti ben 30 mulini ad acqua, i ruderi dei quali si possono ammirare nella “valle dei mulini”. La produzione della pasta, in particolare dei “maccaroni”, rese famosa nel mondo Gragnano che nell’Ottocento conobbe la sua epoca d’oro. La via Roma e la piazza Trivione, con i maccheroni appesi ad essiccare, diventarono così il centro della città. Nel Settecento i primi rudimentali macchinari per la produzione industriale resero il costo della pasta accessibile anche ai meno abbienti che fino ad allora ne erano rimasti privati. La produzione dei maccaroni aumentò ancora dopo l’Unità d’Italia. I pastifici gragnanesi si aprirono ai mercati di città come Torino, Firenze e Milano e la produzione di pasta raggiunse quindi l’apice. Gragnano addirittura ottenne l’apertura di una stazione ferroviaria per l’esportazione dei maccheroni che la collegava a Napoli e quindi all’intero Paese. Il 12 maggio 1885, all’inaugurazione erano presenti nientemeno che il re Umberto I e sua moglie, la regina Margherita di Savoia . Successivamente i pastifici si ammodernarono. Arrivò l’energia elettrica e con questa i moderni macchinari che sostituirono gli antichi torchi azionati a mano.

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I salumi: dagli Etruschi al Prosciutto di Parma

Malgrado una storia della salumeria, italiana e mondiale, ancora non sia stata scritta, molti sono gli elementi che inducono ad attribuirle un’origine prevalentemente mediterranea e in particolare italiana.In primo luogo vi sono il clima e un territorio dove vi è ampia disponibilità di sale marino o d’affioramento. In secondo luogo vi è stato il trasferimento alla carne, soprattutto di maiale, delle tecnologie prima di salatura e poi fermentative, sviluppate per altri alimenti. L’applicazione alla carne dell’essiccamento e della salagione ha assunto e poi mantenuto una sua specificità.Importante per la sua affermazione è stato inoltre lo sviluppo dell’impero romano e del commercio degli alimenti conservati, necessari al sostentamento sia delle popolazioni urbane (Roma sopra le altre città) sia degli eserciti romani, utilizzando una vasta, capillare ed efficiente rete viaria.Sulle rotte del Mare Nostrum e sulle vie consolari, accanto alle anfore contenenti vino, olio, frumento e fichi secchi, vengono trasportati carni secche (siccamen), prosciutti (perna), abbondante lardum, sulcia e insicia, salumi tra i quali sono particolarmente noti quelli della Lucania (lucanica). L’USO ALIMENTARE DEL MAIALE NELL’ANTICHITA’Il maiale, come animale selvatico (cinghiale) o semiselvatico o domestico, è sempre stato impiegato nell’alimentazione europea, dove non risultano esserci i divieti o tabù che invece riguardano altre aree culturali, tra le quali sono da ricordare quella egiziana per taluni periodi storici, ebrea e musulmana.Reperti ossei preistorici, davanti alle grotte o nei primi insediamenti umani costituiscono una documentazione precisa dell’uso alimentare del maiale, che continua presso gli etruschi, i galli e soprattutto i romani della pianura padana.Per quanto riguarda la nascita della salumeria parmigiana, importante è stato il ruolo degli etruschi, che secondo le fonti a disposizioni degli studiosi già nel V secolo a.C. trasformano le cosce di maiale in prosciutti e protoprosciutti, che poi vengono commerciati. In epoca romana dalla Gallia cispadana, partono per Roma grandi quantità di cosce di maiale salate.Sono note descrizioni precise delle tecnologie di produzione delle carni salate di maiale, ma di quali prosciutti (perna) e salumi (lucaniche) si trattava?Molti sono gli autori che attestano come presso i romani si operasse la trasformazione delle carni suine in salumi. Polibio, M. Porzio Catone, Ovidio, il celebre gastronomo Apicio e Catone il Censore sono solo alcuni tra coloro che citano nei loro scritti, prosciutto, mortadella, prodotti affumicati. I SALUMI NEL MEDIOEVO Nel medioevo è diffusa l’abitudine di tagliare il maiale a metà in senso longitudinale, costituendo due mezene, da cui il termine ancora diffuso di mezzena, che vengono conservate tramite salagione.In Francia le mezzene sono denominate baccones da cui il bacon inglese. Quando il maiale non è conservato intero, si salano le parti più pregiate: coscia o prosciutto e gambuccio, scamarita (parte della schiena vicina alla coscia), spalla.Le parti meno pregiate non vengono salate a causa dell’alto prezzo del sale.La presenza di fonti di acque salse nella pianura padana favorisce naturalmente in quest’area lo sviluppo della produzione di carni salate.Numerose sono le testimonianze iconografiche dell’uso padano di conservare il maiale sotto forma di insaccati.Tra le spezie di cui è documentato l’uso nei secoli passati, e fin dal medioevo, si possono ricordare il pepe ed altre spezie d’origine orientale: cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zenzero, comino, zafferano; oppure le erbe aromatiche prodotte negli orti casalinghi: timo, maggiorana, salvia, anice, rosmarino, prezzemolo, coriandolo, ma soprattutto l’aglio.Il maiale é inoltre una preziosa fonte di grasso. Il lardo fin dal periodo longobardo era conservato tramite salatura; i muratori longobardi ricevono una quota fissa di lardo di circa cinque chilogrammi per il loro sostentamento prima di iniziare il lavoro stagionale TRA MEDIOEVO ED ETA’ MODERNA: LE CORPORAZIONI Con la rivoluzione agraria dell’anno Mille, la pianura padana è disboscata e le acque sono regolate; si riduco o scompaiono gran parte degli animali che sfruttano l’incolto, non il maiale, che anzi trae vantaggio dal nuovo assetto.Tra i XII ed il XVII secolo si osserva un forte sviluppo dei mestieri legati alla trasformazione delle carni di maiale e nello stesso periodo compare la figura del norcino, che crea nuovi prodotti salumieri.Queste figure professionali si organizzano in corporazioni o confraternite.A Bologna sorge la Corporazione dei Salaroli, a Firenze, all’epoca dei Medici, la Compagnia dei Facchini di San Giovanni Decollato della Nazione Norcina.Papa Paolo V, con la bolla Pastoris aeterni (1615), riconosce la confraternita norcina dedicata ai santi Benedetto e Scolastica che, otto anni più tardi, il suo successore Gregorio XV eleva ad arciconfraternita alla quale, nel 1667, aderisce anche l’Università dei Pizzicaroli Norcini e Casciani e dei Medici Empirici Norcini.Bandi e statuti prescrivono norme precise per chi voglia esercitare l’arte di lardarolo e salcizzaro. Così, nel 1547, dopo essersi costituiti, non senza difficoltà, in corporazione autonoma da quella dei beccai (macellai), i salcizzari modenesi stabiliscono che «non si lascia fare salcizza alcuno che non sia stato gargione di salcizzaro per anni tre continui».Ancora, il Bando sopra le mortadelle stabilisce che non si possa «fabbricare mortadelle e salumi d’altra sorta di carne, che di porcina, e a chi ne avesse fabbricato, comprato od introdotto d’altra carne, benché minima di essa, vuole Sua Eminenza che in termine di otto giorni dalla pubblicazione del presente Bando debba denonciare». Perfetta qualità della carne, dunque, e provata competenza del norcino sono i requisiti richiesti per esercitare la professione.

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La lumaca

Compresa nel novero dei prodotti selvatici, la chiocciola è certamente uno degli alimenti più antichi della storia umana. La sua innocuità e la proverbiale lentezza, è evidente, furono un handicap per l’animale ed un invito a pranzo per l’uomo. I nostri lontani antenati, tuttavia, non dimenticarono la lumaca neanche quando – attrezzatisi per la caccia – presero a dedicare i loro sforzi principalmente ad animali di maggior taglia. Come nota Livio Cerini, «gli uomini han sempre mangiato le lumache, che tra l’altro erano più facili da catturare di un mammouth o anche di un semplice coniglio selvatico». Che ne abbiano consumato gran quantità, del resto, è un fatto testimoniato dai ritrovamenti, nelle caverne preistoriche, d’ammassi di gusci «pulitissimi e muti testimoni di un primordiale hors-d’oeuvre caldo». Da allora non s’è mai smesso di mangiar lumache, nonostante le loro piuttosto alterne vicende come genere gastronomico: sono state considerate ora pietanza di rara prelibatezza ed ora piatto da bifolchi, ora alimento impuro (così le giudicava Mosè nominandole nella Bibbia) ed ora quale ingrediente riservato a medici e ad ammalati, ora vivanda popolare e perciò anonima ed ora boccone da signori e quindi cibo “colto” degno d’esser messo per iscritto, poi si saprà (con Rabelais) che «erano cibi per tutti». Per dirlo in breve, insomma, la chiocciola ha sempre avuto estimatori: anche nei periodi più bui della sua storia, vale a dire nei secoli XVII e XVIII. Prelibate per i Greci, le chiocciole erano assai apprezzate anche dai Romani. Quattro ricette sono presenti nel celebre “De Re Coquinaria” di Apicio, che spurgava le lumache nel latte per diversi giorni prima della cottura e poi – quando si erano gonfiate tanto da non poter rientrare nel guscio – le friggeva o le arrostiva servendole con varie salse (prima fra tutte l’onnipresente garum). All’epoca delle guerre civili tra Cesare e Pompeo, in ogni modo, quelle raccolte negli orti o nelle campagne del suburbio non erano più sufficienti a soddisfare le richieste. Plinio il Giovane assicura, nella sua “Naturalis Historia”, che i ricchi del tempo ne mangiavano molte provenienti da allevamenti in cui le bestiole venivano ingrassate con farine di cereali ed erbe aromatiche. Pare che l’inventore di tali allevamenti sia stato (nel tal Fulvio Lippino, che importava chiocciole da tutte le parti del mondo allora conosciuto. Per soddisfare i suoi ricchi clienti creò un servizio di traghetti, che trasportavano regolarmente a Roma le lumache fresche dalla Sardegna, dalla Sicilia, da Capri, dalle coste spagnole e nord-africane. Nella sua proprietà di Tarquinia Lippino ne aveva numerosi vivai, distinti secondo le diverse specie: in questo modo poteva tener separatamente le bianche «che nascono nella campagna di Rieti», le illiriche «caratterizzate da una grandezza straordinaria», le africane «che sono molto feconde», le non meglio precisate soletane «ricche di molta fama». L’idea fu ben presto copiata, e per poterne disporre a piacimento si allevavano le lumache in recinti vicino a casa, chiamati «cocleari». «Caput mundi» anche in questo, Roma insegnò alle popolazioni delle Gallie come degustare le chiocciole. I francesi, come si sa, non hanno dimenticato la lezione: ancor oggi, eccellono nell’arte di mangiarle in modo divino. Nei secoli dell’Alto Medioevo gli allevamenti scomparvero, ma il consumo di chiocciole era in ogni caso comune. Dal ‘300 fino al Rinascimento, anche se la loro popolarità fu sempre discussa, non scomparvero mai del tutto dai ricettari dei maestri gastronomi della scuola italiana. E poi, pur essendo palesemente animale del tutto terrestre, vennero rivalutate come “carne di magro” per il periodo quaresimale. Ideali in tempo di penitenza, dunque, da quando (si narra) un Papa che ne aveva voglia respinse le scandalizzate obiezioni del suo cuoco e confermò la richiesta di lumache semplicemente decretando «Estote pisces in aeternum»… Ampiamente attestato è che in Francia, nel XVI secolo, pur non raccogliendo l’unanime consenso le lumache comparivano sulle migliori tavole. Nel secolo successivo e più avanti, però, a Parigi si generalizza il rifiuto della lumaca da parte di gastronomi e libri di cucina. A tratti, la chiocciola subisce il disprezzo o addirittura, contro ogni evidenza, è considerata immangiabile. Qualche esempio? Nella sua “Enciclopedia” (1765) Diderot riferisce che «solo i contadini mangiano le lumache negli stufati e nelle minestre», nel 1809 l’autore di un manuale di cucina (“Cours de gastronomie”) si domanda «come può piacere questo rettile disgustoso?» ed un altro dice della chiocciola che è «buona solo per la gente affamata». A parte quel «solo», c’è da ricordare che pochi anni dopo quest’ultima affermazione si dimostrò sensata: da sempre una manna durante le spaventose carestie che periodicamente colpivano l’intera Europa, le lumache furono mangiate su vasta scala durante quella del 1816… e la loro accettazione, nella cucina borghese, non diminuì più. L’Ottocento, comunque, è il secolo in cui – provenienti direttamente dalla cucina popolare – le lumache ricompaiono con onore anche sulle tavole altolocate che fino ad allora le avevano disdegnate. Nell’alta cucina francese tornano in auge a partire dal 22 maggio 1814, complice una scommessa: nel corso di un memorabile banchetto il principe de Tayllerand, il cui cuoco Anacraonte conosceva venti diversi modi di prepararle, ne offrì allo zar Alessandro I. Qualche anno più tardi la preparazione “alla bourguignonne”, definita «succulenta» nella riedizione del 1840 del famoso “Cuisinier des cuisiniers” di Jourdain Lecointe, era ormai codificata. La lumaca, finalmente e definitivamente, troneggiava in cucina su un aristocratico piedistallo. Senza paura d’esser contraddetto, nel 1870 J.-P.-A. de la Porte poteva scrivere (“Hygièn de la table”) che «[…] La lumaca fa la felicità di un gran numero di buongustai nelle stagioni d’autunno e inverno. […]». Affermazione non meno vera ai giorni nostri…

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I ceci e la farinata

La pianta del cece proviene dall’Oriente ed è coltivata da tempo immemore in tutti i paesi del bacino mediterraneo Gli antichi Romani li conoscevano bene: come altri legumi furono usati per dare un nome ad alcune famiglie (Lentuli, Pisoni, da “lenticchie”, “piselli”), anche i ceci (ciceri) contribuirono a dare il nome al celebre oratore Cicerone, per via del neo che aveva sul naso.Risulta essere stato uno dei primi alimenti dell’uomo sin dal 5000 a. C. Il cece è anche legato a un episodio sanguinoso avvenuto durante i Vespri siciliani: la rivolta di Palermo del 1282, che vide la fine del dominio angioino in Sicilia, consacrò per breve tempo la parola ciceri (ceci) come discriminante tra la vita e la morte. I francesi, infatti, erano incapaci di pronunciarla senza accentare la i finale e i siciliani, ansiosi di sterminarli, costringevano le persone sospettate di essere francesi travestiti a pronunciarla: chi diceva “cicerì” veniva subito ucciso.Ne esistono principalmente due varietà: una mediterranea più grande e tendente al giallo, ed una orientale, più piccola e rossastra. La farinata di ceci (detta anche Torta di Ceci) è una torta salata molto bassa, preparata con farina di ceci, acqua, sale e olio di oliva. Si cuoce in forno a legna, in teglia, e assume con la cottura un vivace colore dorato. Ha radici assai antiche: diverse ricette latine e greche riportano sformati di purea di legumi, cotti in forno. Una leggenda racconta che sia nato per casualità nel 1284, quando Genova sconfisse Pisa nella battaglia della Meloria. Le galee genovesi, cariche di vogatori prigionieri si trovarono coinvolte in una tempesta. Nel trambusto alcuni barilotti d’olio e dei sacchi di ceci si rovesciarono, inzuppandosi di acqua salata. Poiché le provviste erano quelle che erano e non c’era molto da scegliere, si recuperò il possibile e ai marinai vennero date scodelle di una purea informe di ceci e olio. Nel tentativo di rendere meno peggio la cosa, alcune scodelle vennero lasciate al sole, che asciugò il composto in una specie di frittella. Rientrati a terra i genovesi pensarono di migliorare la scoperta improvvisata, cuocendo la purea in forno. Il risultato piacque e, per scherno agli sconfitti, venne chiamato l’oro di Pisa. Preparazione Secondo una delle molte ricette più diffuse: stemperare una parte di farina di ceci con da 3 a 4 parti d’acqua in una terrina, aggiungere il sale e mescolare energicamente per sciogliere i grumi di farina (eventualmente schiacciandoli contro la parete della terrina con il cucchiaio). Lasciare riposare la miscela per alcune ore mescolando di tanto in tanto per evitare la decantazione della farina e sciogliendo sempre i grumi residui. Ungere una teglia in rame stagnato con un velo d’olio d’oliva (una parte di olio per 5-10 parti di ceci) porla in forno per alcuni minuti (questo accorgimento serve a facilitare il successivo distacco) quindi tirarla fuori dal forno e versarvi la miscela partendo dal centro della teglia (lo spessore deve essere di almeno 5 mm ma inferiore a 1 cm). “Spezzare” l’olio con un cucchiaio di legno dai bordi verso il centro della teglia (fino a fare affiorare macchie di olio sparse sulla superficie) e infornare nel forno a legna già ben caldo. Nella primissima fase della cottura è importante girare la teglia in modo da mantenere uniforme lo spessore (essendo molto difficile che il forno sia completamente in piano questo evita di avere parti più spesse e poco cotte e parti troppo sottili e bruciate). È possibile arricchire la ricetta cospargendo la farinata prima di infornare con rosmarino, cipolla, carciofi o cipollotti oppure a metà cottura con stracchino, gorgonzola, salsiccia o bianchetti, tipico pescato della costa ligure.

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