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Ricette, Tradizioni

Ciambotta Lucana

Un piatto antichissimo e di facile realizzazione è la ciambotta lucana, una tradizione contadina che utilizzava in cucina ciò che l’orto offriva: in questo caso patate, zucchine, peperoni e melanzane. La ciambotta è a base di verdura, ma può presentare altri ingredienti come carne o pesce. Le verdure scelte sono solitamente: patate, melanzane, pomodori, peperoni, peperoncino, cipolla, erbe aromatiche. Ingredienti (per 4 persone) Patate gr 250, Peperoni gr 250, Melanzane gr 250, Pomodori gr 250 Uno spicchio d’aglio, Peperoncino, Olio d’oliva. Sale PreparazioneLavare e affettare le melanzane, porle su un piatto, spolverizzarle di sale, sistemare il piatto inclinato e lasciarle così per circa un’ora, affinché perdano l’acqua amarognola; trascorso questo tempo lavarle e asciugarle.Pelare le patate e tagliarle a cubetti. Pelare i pomodori e, dopo aver tolto loro i semi, tagliuzzarli. Lavare i peperoni, asciugarli e tagliarli a listerelle. Porre sul fuoco la padella dei fritti con abbondante olio e quando sarà ben caldo friggervi le fette di melanzana. A parte friggere anche le patate e i peperoni, poi riunire tutte le verdure in un solo recipiente; aggiungere anche i pomodori e lo spicchio d’aglio, salare, mescolare e cuocere lentamente per un’ora. Servire, possibilmente con pane lucano.

a tavola con

Giuseppe Verdi e il suo risotto

Giuseppe Verdi, amante della buona tavola e  goloso raffinato, nella sua Villa di S’Agata riceveva spesso ospiti e colleghi. Villa Verdi è la casa che il compositore acquistò nel 1848 e in cui visse fino alla sua morte nel 1901.Si trova in un piccolo borgo, Sant’Agata, nel comune di Villanova sull’Arda a pochi chilometri da Roncole, dove è nato nel 1813, e Busseto dove ha vissuto dal 1824Chi visita la villa, intatta nel verde del parco lussureggiante, e ha la fortuna di entrare nella cucina, ha l’impressione che essa sia una vera “officina d’alta alchimia pantagruelica”.Luccicano i rami delle cento pentole, delle casseruole, degli stampi, delle forme, dei bricchi, uno svariato meraviglioso campionario come oggi è raro vederne e qui, gli ospiti ed i commensali potevano gustare le prelibatezze locali che venivano cucinate.Fra tutti i piatti che il Maestro preparava, il riso era consumato e amato ad ogni stagione.Nel settembre 1869 Giuseppina, la moglie, scriveva di Verdi a Camille Du Locle, l’impresario dell’Opéra di Parigi, il quale le chiese la ricetta del risotto che spesso il marito cucinavaEcco la ricetta di quel risotto per quattro persone : “Mettete in una casseruola due oncie di burro fresco; due oncie di midollo di bue, o vitello, con un poco di cipolla tagliata. Quando questa abbia preso il rosso mettete nella casseruola sedici oncie di riso di Piemonte: fate passare a fuoco ardente (rossoler) mischiando spesso con un cucchiaio di legno finchè il riso sia abbrustolito ed abbia preso un bel color d’oro. Prendete del brodo bollente, fatto con buona carne e mettetene due o tre mescoli (deux ou trois grandes cuilleres à soupe) nel riso. Quando il fuoco l’avrà a poco a poco asciugato, rimettete poco brodo e sempre fino a perfetta cottura del riso. Avvertite però, che a metà della cottura del riso (ciò sarà dopo un quarto d’ora che il riso sarà nella casseruola) bisognerà mettervi un mezzo bicchiere di vino bianco, naturale e dolce: mettete anche, una dopo l’altra, tre buone manate di formaggio parmigiano grattato rapè. Quando il riso sia quasi completamente cotto, prendete una presa di zafferano che farete sciogliere in un cucchiaio di brodo, gettatelo nel risotto, mischiatelo, e ritiratelo dal fuoco, versatelo nella zuppiera. Avendo dei tartufi, tagliateli ben fini e spargeteli sul risotto a guisa di formaggio. Altrimenti mettetevi formaggio solo. Coprite e servite subito”. Henri-Paul Pellaprat (1869-1952), discepolo del leggendario Auguste Escoffier, il padre della moderna cucina francese, dedico’ a Verdi proprio un risotto. Ingredienti per 4 persone½ cipolla affettata fine, 300 g di riso carnaroli, 60 g di burro, 80 g di funghi coltivati, 80 g di punte di asparagi, 80 g di Prosciutto di Parma, 80 g di pomodori pelati, 5 cl di panna da cucina, un litro di brodo di carne, 80 g di Parmigiano Reggiano grattugiato Pulire e tritare finemente la cipolla. Pulire e tagliare a fettine sottili i funghi. Pulire e sbollentare gli asparagi in acqua salata e farli raffreddare. Tritate finemente il prosciutto. Sbollentare i pomodori per togliere la buccia e i semi e tagliarli a dadini. In un tegame  sciogliere ¼ del burro, aggiungere la cipolla e cuocere lentamente fino a doratura. Aggiungere il riso e farlo tostare per circa 1 minuto. Aggiungere il brodo, poco alla volta, aspettando fino a quando non è stato assorbito prima di aggiungere il successivo; a metà cottura unire i funghi, il prosciutto, gli  asparagi e pomodori.    Mescolate bene e cuocere per altri 2 minuti e aggiungere la panna. Unire, quando il riso è “al dente”, il burro e il Parmigiano, quindi mescolare ancora e coprire con un coperchio. Lasciate riposare per 2 minuti e servire.

Vini

Bardolino DOC

Il Bardolino è prodotto delle colline moreniche della sponda orientale del lago di Garda che hannoavuto origine dai ghiacciai che modellarono il territorio, lasciando evidente traccia di sé in una seriedi rilievi collinari concentrici affacciati verso il Garda, dotati di suoli estremamente variabili, tendenzialmente ghiaiosi e profondi Ritrovamenti archeologici dell’età del bronzo, reperti romani per l’uso del vino nei riti religiosi, raffigurazioni di grappoli nelle chiese medioevali, documenti di compravendite di vigneti, nonché scritti di autori famosi del XV secolo, testimoniano la lunga ed ininterrotta tradizione vitivinicoladella zona del Bardolino.È nel XIX secolo che la produzione vinicola della zona incomincia ad essere identificata esplicitamente con il nome di “Bardolino”, con le prime analisi chimiche effettuate nel 1873. Come testimonia nel 1897 lo scrittore bresciano Giuseppe Solitro, “Tra i più reputati della regione sono quelli di Bardolino, che questo nome corron tutta l’Italia e competono con i migliori della penisola”.Giovanni Battista Perez, in un testo pubblicato nel 1900, descrive il vino “di tinta rosso-chiara” del distretto di Bardolino, soffermandosi sulle caratteristiche organolettiche della produzione delle varie località di quella che è l’attuale area del Bardolino.Il Bardolino è un vino di colore rosso rubino brillante, con profumi fruttati e fragranti e note di ciliegia, marasca, fragola, lampone, ribes, mora ed eleganti accenni di spezie (cannella, chiodo di garofano, pepe nero). Il gusto è asciutto, morbido, caratterizzato dalle medesime sensazioni di fruttarossa croccante e di piccolo frutto percepite all’olfatto, speziato, dotato di equilibrio, freschezza, e considerevole bevibilità. È, per eccellenza, uno vino quotidiano, giovanilmente brioso, dell’inimitabile sapore salino. Alcuni autori nei primi anni del 1900 caratterizzavano il Bardolino, come “salatino”, oppure “asciutto e leggero, dotato di una sottile sapidità”, peculiarità che tutt’oggi differenzia il Bardolino da vini simili ottenuti nelle zone limitrofe. Disciplinare: Approvato con DPR 28.05.1968 G.U. 186 – 23.07.1968

Vini

Franciacorta DOCG

Nell’anfiteatro morenico che va dai monti di Brescia a Iseo, fino alle pendici del Monte Orfano, la vite è presente in forma spontanea già in epoca preistorica e sono documentate le esperienze di coltivazione dei monaci abitanti le franchae curtes, esentate dal pagamento dei dazi doganali per il merito di bonificare e coltivare i terreni. Descrizione: Spuma fine, intensa (Franciacorta, Rosé, Milles., Riserva), persistente, cremosa (Satèn, Satèn Milles., Satèn Riserva). Colore dal giallo paglierino più o meno intenso (Satèn) fino al dorato (Franciacorta, Millesimato, Satèn Milles.) e con eventuali riflessi ramati (Riserva), rosa più o meno intenso (Rosé) e con possibili riflessi ramati (Rosé Milles. e Riserva), giallo dorato più o meno intenso (Satèn Riserva). Odore fine, delicato ampio e complesso con note proprie della rifermentazione in bottiglia (Franciacorta, Milles., Satèn), note complesse ed evolute proprie di un lungo affinamento in bottiglia (Riserva, Milles., Satèn Riserva) e con sentori tipici del Pinot nero (Rosé anche Milles. e Riserva), fine, complesso con note proprie della rifermentazione in bottiglia (Satèn Milles.). Sapore sapido, fine ed armonico (Milles., Riserva) e fresco (Franciacorta, Rosé anche Milles. e Riserva), sapido, fine ed armonico (Satèn Riserva) e cremoso (Satèn anche Milles.). Titolo alcol. minimo 11,5%. Tempi minimi di affinamento in bottiglia:  18 mesi (Franciacorta), 24 mesi (Satèn, F. Rosé), 30 mesi (il Millesimato), 60 mesi (la Riserva). Abbinamenti: Aperitivi, pesce, carni bianche, formaggi. Vitigni: Chardonnay e/o Pinot nero 50-100%, Pinot bianco 0- 50%. Per il Franciacorta Rosé, Pinot nero almeno il 25% del totale. Per il Franciacorta Satèn non è consentito il Pinot nero Disciplinare: Approvato DOC con DPR 21.07.67 (G.U. 209 – 21.08.1967), poi Approvato DOCG con DM 01.09.95 (G.U. 249 – 24.10.1995) (i testi sono tratti dal volume “50 Doc – 50 anni di denominazioni d’origine a tutela del vino italiano” in vendita presso CI.VIN. s.r.l., info@cittadelvino.com).

Ricette, Tradizioni

Mondeghili

Mondeghili e la sua rara forma al singolare, mondeghilo, sono una delle pochissime parole che oltre centocinquant’anni di dominazione spagnola hanno lasciato nel dialetto di Milano. Il Cherubini nell’opera Dizionario Milanese Italiano, Milano 1839, scrive riguardo ai mondeghili: “specie di polpette fatte con carne frusta, pane, uovo, e simili ingredienti”.In una Italia dove per tutti una preparazione prevalentemente tondeggiante a base di carne trita, carne sia fresca che di recupero di quanto avanzato a livello di arrosti e di bolliti, è la polpetta, a Milano la stessa parola contraddistingue un involtino di verza ripieno di carne, la Polpett de verz , chiamate comunemente polpette di verza o verzotti, anche se nei tempi più lontani il ripieno poteva essere avvolto in una fettina di carne piuttosto che in una rete di maiale.Così, quelle che per il Resto d’Italia è la polpetta, per i milanesi è il mondeghilo o, ben più spesso, i mondeghili perché non è uso gustare una singola polpetta.La parola mondeghilo/i arriva a noi dalla Spagna che a sua volta la mutuò dall’arabo, popolo che insegnò a quello spagnolo l’uso di confezionare una sfera di carne trista per poi friggerla.Tutto parte dal termine “al-bundukc” che i castigliani hanno fatto loro con “albondiga” ovvero sia polpetta ancora ai giorni nostri. Da lì noi milanesi avremmo mutuato l’albondeguito e l’albondeghito per arrivare nel tempo amondeghilo.Oggigiorno è facile che anche a Milano ci si confonda tra polpetta e mondeghilo, con tanti che credono che il mondeghilo sia una speciale versione di una polpetta. Non sono arrivate a noi ricette seicentesche. Questo perché è frequente la presenza tra gli ingredienti della patata che fino alla metà dell’Ottocento non è era una materia prima comune in città.Ricetta di recupero del manzo avanzato, prevede un impasto arricchito con salsiccia, salame crudo o mortadella, possibilmente di fegato, del maiale insomma per dare più sapore.Quindi pane bagnato nel latte, meglio ancora se mollica, uovo (magari con gli albumi montati a neve), grana padano, aglio o cipolla, noce moscata.I mondeghili vanno infine fritti nel burro rosso, lo stesso che dovrà essere usato per schiumarli una volta disposti nel piatto di portata come un tempo si era soliti fare anche con la Cotoletta. L’uso del burro chiarificato è una modernità come quella di cuocerli in un sugo di pomodoro.Proprio perchè si tratta di ricetta di recupero Angelo Dubini autore de La cucina per gli stomachi deboli nel 1842 scriveva: “Mai mangià i mondeghilj a l’osteria” Ingredienti: • 400 g carne di manzo o avanzi di lesso o brasato• 100 g di salsiccia sbriciolata• 100 g mortadella di fegato• 2 uova intere• 1 cucchiaio di mollica di un panino raffermo bagnata nel latte• Grana Padano DOP grattugiato• prezzemolo tritato• 1 spicchio d’aglio• sale, pepe, noce moscata• pane grattugiato• burro Descrizione:In una terrina, mettere la carne passata nel tritacarne, la salsiccia e la mortadella tritate e la mollica di pane ben strizzata e sbriciolata.Mescolare e aggiungere le uova intere, il prezzemolo, lo spicchio d’aglio tritato, il Grana Padano grattugiato, un po’ di sale e pepe e la noce moscata. Amalgamare bene l’impasto con un cucchiaio di legno e formare delle polpette, leggermente schiacciate, passarle nel pane grattugiato, friggerle nel burro dorandole da ambo le parti. Servire i mondeghili caldissimi

I Tipici

Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP

La coltivazione del Pomodorino del Piennolo sulle falde del Vesuvio ha senza dubbio radici antiche e ben documentate. Per limitarci alle testimonianze storiche più illustri, notizie sul prodotto sono riportate dal Bruni, nel 1858, nel suo “Degli ortaggi e loro coltivazione presso la città di Napoli”, ove parla di pomodori a ciliegia, molto saporiti, che “si mantengono ottimi fino in primavera, purché legati in serti e sospesi alle soffitte”.Altra fonte letteraria attendibile è quella di Palmieri, che sull’Annuario della Reale Scuola Superiore d’Agricoltura in Portici (attuale Facoltà di Agraria), del 1885, parla della pratica nell’area vesuviana di conservare le bacche della varietà p’appennere in luoghi ombrati e ventilati. Francesco De Rosa, altro professore della Scuola di Portici, su “Italia Orticola” del novembre 1902, precisava che la vecchia “cerasella” vesuviana era stata via via sostituita dal tipo “a fiaschetto”, più indicato per la conservazione al piennolo. Il De Rosa è anche il primo ricercatore che riporta in modo esaustivo l’intera tecnica di coltivazione dei pomodorini vesuviani, facendo intendere così che si stava sviluppando nell’area un’intera economia intorno a questo prodotto, dalla produzione delle piantine da seme alla vendita del prodotto conservato. Il “Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP” è uno dei prodotti più antichi e tipici dell’agricoltura campana, tanto da essere perfino rappresentato nella scena del tradizionale presepe napoletano.In realtà, in diversi territori della Campania, esistono raggruppamenti di ecotipi con bacche di piccola pezzatura, i cosiddetti “pomodorini”, che si distinguono tra loro per tipicità, rusticità e qualità organolettica. I più famosi da sempre sono però quelli tuttora diffusi sulle pendici del Vesuvio. Il “Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP” raggruppa vecchie cultivar e biotipi locali accomunati da caratteristiche morfologiche e qualitative più o meno simili, la cui selezione è stata curata nei decenni dagli stessi agricoltori. Le denominazioni di tali ecotipi sono quelle popolari attribuite dagli stessi produttori locali, come “Fiaschella”, “Lampadina”, “Patanara”, “Principe Borghese” e “Re Umberto”, tradizionalmente coltivati da secoli nello stesso territorio di origine. Le caratteristiche distintive, a livello tecnico-mercantile, del prodotto ammesso a tutela sono:allo stato fresco: frutti di forma ovale o leggermente pruniforme con apice appuntito e frequente costolatura della parte peduncolare, buccia spessa di colore rosso vermiglio, pezzatura non superiore a 25 g, polpa di consistenza elevata e di colore rosso, sapore vivace intenso e dolce-acidulo;conservato al piennolo: colore della buccia rosso scuro, polpa di buona consistenza di colore rosso, sapore intenso e vivace. I “piennoli” o “schiocche” presentano un peso, a fine conservazione, variabile tra 1 e 5 chilogrammi. Agli effetti dell’azione di tutela si è riscontrato che l’aspetto peculiare di tipicità che accomuna i pomodorini vesuviani è l’antica pratica di conservazione “al piennolo”, cioè una caratteristica tecnica per legare fra di loro alcuni grappoli o “scocche” di pomodorini maturi, fino a formare un grande grappolo che viene poi sospeso in locali aerati, assicurando così l’ottimale conservazione del prezioso raccolto fino al termine dell’inverno. Nel corso dei mesi il pomodorino, pur perdendo il suo turgore, assume un sapore unico e delizioso, che soprattutto i napoletani apprezzano particolarmente per preparare sughi prelibati ed invitanti. E’ appunto il sistema di conservazione al “piennolo” che, favorendo una lenta maturazione, consente altresì una lunga conservazione, con la conseguente possibilità di consumare il prodotto “al naturale” fino alla primavera seguente.

I Tipici

Pane di Altamura DOP

Il Pane di Altamura DOP ha un sapore unico e inimitabile, frutto della tipica lavorazione artigianale, tramandata dall’antica tradizione, ma anche delle specifiche condizioni climatiche e ambientali in cui viene prodotto. Il pane di Altamura e’ ufficialmente il primo prodotto in Europa a fregiarsi del marchio DOP nella categoria merceologica ”Panetteria e prodotti da forno”. DOP significa: “Denominazione Origine Protetta”, DOP Nel panorama degli oltre 1000 varietà di pane prodotti in Italia (fonte INSOR) solo il Pane di Altamura beneficia del riconoscimento DOP europeo. E’ prodotto solo all’interno della zona d’origine con grano raccolto esclusivamente nella zona d’origine. Ogni forma è garantita dal Consorzio di Tutela. Così, al momento della scelta siete certi che il Pane di Altamura è una deliziosa genuinità. Di Pane di Altamura così ce n’è uno solo. Il tipico Pane di Altamura dalle inconfondibili qualità alimentari, unico per fragranza e sapore: colore giallo, crosta croccante, mollica soffice e porosa, lunga conservabilità. Il pane di Altamura si ottiene dall’impasto di semola di grano duro rimacinata delle varietà appulo, arcangelo, duilio e simeto. Le sue origini sono antiche e legate al mondo e alle tradizioni contadine della zona. Il metodo di lavorazione e gli ingredienti sono ancora quelli utilizzati in passato: una matrice di lievito chiamato anche pasta acida, sale marino e acqua. La lievitazione è di tipo naturale e la cottura avviene in forni a legna. La forma del pane è piuttosto grande e tradizionalmente si presenta accavallata.Il pane di Altamura era particolarmente apprezzato per la sua capacità di resistere morbido, fragrante e gustoso per giorni e giorni, peculiarità che, unita alle componenti nutrizionali, ne faceva in passato l’alimento principe delle tavole degli agricoltori della zona. .  La denominazione di origine protetta “Pane di Altamura” è propria del pane ottenuto mediante l’antico sistema di lavorazione (a lievito madre o pasta acida-sale marino-acqua) e dall’impiego di semole rimacinate di varietà di grano duro coltivato nei territori dei comuni della Murgia nord-occidentale Il pane prodotto è considerato di qualità “unica”, perché derivato da ottimi grani duri, ottenuti in un ambiente con specifici fattori geografico-ambientali, da cui è caratterizzato il territorio della Murgia nord-occidentale e dall’impiego di acqua potabile normalmente utilizzata sul territorio   In passato il pane era impastato in casa e portato al forno dove, prima della cottura, veniva marchiato a fuoco con un ferro recante le iniziali del capofamiglia che aveva prodotto la pasta. Si utilizza anche secco per preparare un piatto povero tradizionale, la “cialled” fatto col pane bagnato in un brodo di verdure, cipolla ed aglio, condito poi con olio extravergine d’oliva e peperoncino.

I Tipici

Canestrato Pugliese DOP

La vocazione silvo-pastorale dell’Alta Murgia ha una storia millenaria che si intreccia con quella del canestrato pugliese, legato alla transumanza delle greggi da dicembre a maggio tra le montagne dell’Abruzzo e il Tavoliere delle Puglie. Tipico delle province di Foggia e Bari, deve il suo nome ai canestri di giunco, le cosiddette fiscelle, dentro i quali  trascorre la prima parte della stagionatura e che sono uno dei prodotti piú tradizionali dell’artigianato locale . Il suo nome deriva dai canestri di giunco pugliese, entro cui lo si fa stagionare, i quali sono uno dei prodotti più tradizionali dell’artigianato locale L’ arte casearia che dà origine a questo prodotto ha fatto sì che esso divenisse un alimento tipico con il marchio DOP con D.p.r. del 10 set. 1985 e a Denominazione di origine protetta nel 1996 con il reg. n.1107/96 Descrizione:  Formaggio stagionato a pasta dura non cotta prodotto esclusivamente con latte di pecora intero proveniente da una o due mungiture giornaliere. La crosta di colore marrone tendente al giallo, più o meno rugosa dura e spessa, viene trattata con olio di oliva miscelato ad aceto di vino. Il colore della pasta è di colore giallo paglierino più o meno intenso in relazione alla stagionatura, che i protrae da 2 a 10 mesi in locali freschi debolmente ventilati. La pasta ha struttura compatta alquanto friabile, discretamente fondente, e sapore piccante caratteristico piuttosto marcato. E’ un ottimo formaggio da tavola insieme a fave, pere o verdure crude in pinzimonio  e vini bianchi o rosati secchi quando è più giovane; accompagnato da sedano, cicoria, olive nere e ravanelli e servito, scheggiato dalla forma, insieme a vini rossi strutturati ed invecchiati, se è più stagionato. Ma trova la sua massima espressione, quando la maturazione non è inferiore a 6 mesi, grattugiato su piatti di pasta asciutta al ragú di carne o di involtini.  Disciplinare

Il cibo nel tempo

Aceto, l’agro di vino

La storia dell’aceto è antichissima. Citato ripetutamente dalla Bibbia (homez), se ne sono trovate tracce in un vaso dell’Egitto di circa diecimila anni, a testimonianza del fatto che gli Egizi, così come i Babilonesi e i Persiani, lo conobbero e lo impiegarono per la conservazione dei cibi. Plinio afferma invece che si tratta di una decomposizione del vino, e narra come esso sia utile, diluito con acqua, per dissetare i legionari durante le lunghe e fiaccanti marce.La bevanda detta ‘posca’ era in uso nell’antica Roma che, per via della sua economicità, era diffusa presso il popolo ed i legionari. La si ricavava miscelando acqua e aceto, ottenendo così una bevanda dissetante, leggermente acida, e dalle proprietà disinfettanti. Potevano essere aggiunte spezie e miele per migliorarne il sapore. Marco Gavio Apicio, a cui è attribuito uno dei più famosi trattati sulla cucina dell’antica Roma (De re coquinaria utilizza la posca come ingrediente di alcune sue ricette.Nel medioevo si faceva un grande uso di aceto, come eccipiente per farmaci o prodotti cosmetici, come solvente nell’industria, per preparare amalgami, estrarre colori. L’arte di preparare l’aceto si affina e compare l’Agresto, un aceto preparato a partire dall’uva ancora acerba che, con il proprio sapore fresco e acidulo, rimedia al grasso eccessivo dei condimenti. A Orléans, nel 1394, la neonata Corporazione dei fabbricanti d’aceto impone ai propri membri il più stretto segreto sui metodi della lavorazione, pena l’espulsione. Ciò contribuirà a rendere famosi gli aceti di Orléans che daranno vita a una vera e propria industria, fiorente nei secoli La vera e propria industria dell’aceto nasce nei Comuni medievali: è del 1394 la prima costituzione della ‘Corporazione dei Fabbricanti d’Aceto’, i cui membri dovevano avere una consolidata pratica, ed erano obbligati a mantenere il segreto della fabbricazione.Ciò, tuttavia, non impedì che l’aceto fosse preparato nelle famiglie, e nelle comunità religiose, partendo dalle feccie del vino, dalle vinacce, dai graspi, dai germogli della vite, e da vini alterati E’ di un certo Donizone, monaco benedettino vissuto fra l’undicesimo ed il dodicesimo secolo, la prima testimonianza scritta sul balsamico. Nella sua cronaca “Vita Mathildis”, racconta come , in occasione di una sosta a Piacenza nell’anno 1046, il re e futuro imperatore Enrico II di Franconia mandasse un suo messaggero al marchese Bonifacio di Canossa, padre di Matilde, “poiché voleva di quell’aceto che gli era stato lodato e che si faceva nella rocca di Canossa” In questo racconto non è menzionata la parola “balsamico”, ma abbiamo comunque la testimonianza di quanto già allora quell’ aceto fosse considerato importante al punto di farne dono ad un imperatore che, pur venendo da così lontano, ne conosceva l’esistenza.

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