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I Tipici

Maccheroncini di Campofilone IGP

Una citazione di questo tipo di pasta la si trova nel ‘400 in una corrispondenza dell’Abbazia di Campofilone in cui è riportato che i maccheroncini erano “tanto delicati da sciogliersi in bocca”. Si parla di maccheroncini anche nelle ricette del 1700 e del 1800, riportate nei quaderni di cucina di alcune case nobili come i conti Stelluti-Scala e i conti Vinci. La produzione dei maccheroncini di Campofilone si identifica nel territorio del comune di Campofilone, un paesino posto sulle verdi colline marchigiane in provincia di Fermo, e si distinguono dalle altre paste alimentari perché la farina deve essere impastata solo con uova di gallina nella proporzione che varia, per ogni kg, da un minimo di 7 a un massimo di 10 nel caso di utilizzo di uova intere, oppure se espressa in valore percentuale  è pari a un minimo del 33%. Si usa generalmente semola di frumento duro oppure, a livello familiare, farina di grano tenero doppio zero purché abbia glutine forte con notevole capacità di assorbimento. L’impasto ottenuto, duro ed elastico, rimane poroso mentre la sfoglia sottile e uniforme nello spessore, rimane morbida. Il prodotto si presenta come un insieme di sottili fili. Per questo prodotto è all’esame dell’Unione Europea la richiesta di registrazione come indicazione geografica protetta (IGP). Si procede all’impasto degli ingredienti senza aggiunta di acqua. L’impasto viene sfogliato a mano oppure estruso in bronzo e sfogliato su rulli fino ad ottenere la sfoglia di spessore compreso tra 0,3 e 0,7 mm. Successivamente si procede al taglio mediante l’utilizzo di un coltello affilatissimo ottenendo in tal modo dei fili sottili che verranno poi mediante la lama di un coltello separati e disposti a treccia su fogli di carta bianca per alimenti di larghezza compresa tra 22 e 26 cm e lunghezza compresa tra 32 e 35 cm. I foglietti così ottenuti hanno un peso compreso tra 155 e 175 g ciascuno e vengono piegati, nella maniera tradizionale, ai quattro lati per evitare la fuoriuscita del prodotto e ordinatamente riposti in appositi telai. Quest’ultimi vengono quindi inseriti in apposite stanze di essiccazione ad una temperatura compresa tra 28 – 40 °C per una durata compresa tra le 24 e le 36 ore e successivamente confezionati. I Maccheroncini di Campofilone si distinguono decisamente dalle altre paste alimentari per la sottigliezza della sfoglia ed il taglio finissimo. Tali caratteristiche consentono al prodotto un ridottissimo tempo di cottura pari ad uno/due minuti nell’acqua bollente o direttamente nel condimento senza necessariamente essere lessato.Altra fondamentale caratteristica che dimostra l’unicità dei Maccheroncini di Campofilone è la  percentuale di uova che viene utilizzata nell’impasto. Essa, infatti, è nettamente superiore rispetto a quella utilizzata in altre tipologie di paste alimentari. Tale proporzione unitamente al processo di essicazione lento determina un’elevatissima resa del prodotto, infatti mentre 250 g di pasta generica corrispondono a 2 porzioni abbondanti, dallo stesso quantitativo di Maccheroncini di Campofilone si ottengono 4 porzioni.Questa capacità di resa dei Maccheroncini di Campofilone determina come conseguenza la capacità assorbente della pasta che trattiene una quantità di condimento superiore rispetto ad altre tipologie di pasta La valenza dei Maccheroncini di Campofilone sta nell’aver conservato immutata nel corso degli anni la tecnica di lavorazione, mantenendo inalterata la sua semplice e particolare composizione, il particolare tipo di essicazione, nonché nel fatto che si tratta di un prodotto che richiede, per la sua realizzazione, particolari doti di abilità e esperienza, caratteristiche queste che ne fanno una pasta dalle qualità in termini di resa, di gusto, di leggerezza e di facilità di cottura del tutto particolari.Parlare dei Maccheroncini di Campofilone significa parlare dell’espressione più autentica della cultura del territorio campofilonese. La produzione artigianale di questa pasta è la manifestazione della tradizione popolare del borgo medioevale di Campofilone tramandata di generazione in generazione. Le uova in particolare, non sempre a disposizione nel corso dell’anno e dipendenti dal ciclo biologico delle galline, hanno stimolato l’ingegno e la fantasia delle vergare campofilonesi che hanno iniziato a fare la pasta in casa, dapprima fresca e poi realizzando quello che sarebbe diventato un processo di essiccazione. La pasta essiccata infatti era più conveniente di quella fresca perché si conservava nella madie e poteva essere consumata durante tutto l’anno. La grossolanità del taglio aveva però un inconveniente: l’aria nel processo di essiccazione incurvava la pasta che si rompeva in più punti e non poteva essere degustata nella sua interezza. Allora le argute massaie hanno iniziato a tagliare la “pannella ” in fili sottilissimi, che non si spezzavano sotto l’azione dell’aria, restando intatti sino al consumo.L’arte dei Maccheroncini di Campofilone è nata dunque nelle cucine e poi nei laboratori artigianali e da allora questi sottilissimi fili di velo dorato hanno sempre rivestito un’importanza particolare, discostandosi dai piatti di “tutti i giorni”, rappresentando il piatto per eccellenza, simbolo di bravura della padrona di casa, nei pranzi di festa Una delle occasioni da non perdere per assaggiare la specialità gastronomica di Campofilone è la sagra. La nascita di questa festa risale al 1964 e da allora si svolge ogni anno, tre giorni nella prima decade di Agosto.

Ricette

Fritto misto Piemontese

Questo piatto unico è d’antica tradizione popolare, nel momento in cui si macellavano gli animali – in modo casalingo – erano conservate le frattaglie, che si cucinavano, per conservare il più possibile. Le frattaglie erano impanate in pan grattato e fritte in olio bollente ed – in seguito – servite con sanguinacci, nel giorno festivo, successivo alla macellazione.Nel tempo, il piatto ha seguito importanti incrementi alla preparazione, con l’aggiunta di svariatati ingredienti, con abbinamenti di dolce e salato.E’ comunque – da sempre – un piatto di un giorno di festa; infatti, contiene molti generi di carni, con verdure ed in aggiunta, amaretti e mele.Alcune, recenti versioni, hanno incrementato la preparazione con gusto e fantasia, aggiungendo: uva – ananas – albicocche essiccate – pere quadrucci di polenta gialla, zuccherata e fritta, detta semolino dolce. E la tradizione, suggerisce di servire sempre – in abbinamento – carote al burro. Tutti gli ingredienti devono essere puliti, lavati, spellati e scottati in acqua calda o rosolati in olio e burro – se occorre – ed infine, passati in pastella ottenuta, con uova, latte, farina e poi fritti. Le verdure e le carni, in farina, uovo e pan grattato e poi fritte. Anche gli amaretti, prima ammorbiditi nel latte.Le polpette di carni miste, con aggiunta di cervella e prosciutto cotto, rosso d’uovo e pastella; devono essere poi infarinate, passate nel pan grattato e fritte. Ogni ingrediente, deve avere il suo preciso tempo di cottura, facendo in modo che, tutte le fritture siano pronte, nello stesso momento.IngredientiAnimelle, cervella, coratella, fegato, filoni di vitello, rognone di vitello, costolette di vitello e di agnello, salsiccia, melanzane, funghi porcini, amaretti, crocchette di semolino alla vaniglia e al cioccolato, mela.PreparazioneSi tratta di friggere ogni componente nei modi e nei tempi richiesti, cosa che necessita di impegno e tempo. Si comincerà quindi da quelli di più lunga cottura, come le costolette di vitello e di agnello, che prima andranno passate per l’uovo sbattuto (vitello) o nei soli albumi (agnello), poi nel pangrattato. Anche il fegato subirà lo stesso trattamento.Animelle e cervella, sbollentate per toglierne la pellicina, andranno prima infarinate poi passate nell’uovo, quindi fritte. Stesso trattamento per il filone ma senza sbollentarlo.Il rognone (prima sbollentato in acqua e aceto), le crocchette di semolino, le melanzane, i funghi, la mela, tutti quanti a fette non troppo sottili, passarli nella farina e poi friggerli, anche se alcuni preferiscono impanare i funghi. Il pollo si utilizza facendo delle crocchette di carne avanzata, tritata, passata in una pastella fatta con farina bianca 200gr, succo di limone, olio d’oliva 50 gr, marsala 2 cucchiai, acqua, sbattendo il tutto con un cucchiaio di legno fino ad avere una pastella liscia e colante, alla quale si uniscono due albumi montati a neve.

I Tipici

Signora di Conca Casale PAT

La Signora di Conca Casale (PAT) è un insaccato di carne suina, di grande pezzatura, tipico di alcune zone montuose del Molise. A differenza di altri salumi della pratica gastronomica molisana, la Signora non fa parte di una tradizione povera, ma è considerato un prodotto pregiato e particolare. I tagli pregiati richiesti dalla lavorazione, e la grande pezzatura in cui viene realizzata,da 800 grammi fino a 5 kg, fanno sì, ad esempio, che da ogni capo possa essere realizzata un solo salume. E’ sicuramente uno dei salumi meno conosciuti della regione, prodotto nel piccolo centro tra i monti sopra Venafro. La sapienza produttiva è affidata a poche anziane signore che continuano a realizzare questo straordinario salume, oggi tutelato da un presidio Slow Food e dalla comunità locale. Le materie prime sono quelle derivate dal filetto e dalla spalla del maiale, il lardo della pancetta e del dorso. Tutto viene ridotto a punta di coltello e lasciato maturare per qualche ora dopo aver conciato il composto con pepe nero in grani, coriandolo, peperoncino rosso in polvere e finocchietto selvatico.Il budello cieco del maiale viene lavato accuratamente con farina grezza di mais rosso, arance, limoni, aceto e vino e questo “lavaggio” conferisce al sapore una particolare nota di agrumi. Il composto viene quindi insaccato sapientemente nel budello con grande perizia aiutandosi con una macchina ad imbuto. Legato accuratamente viene posto ad affumicare in idonei locali curandolo con grande attenzione. La Signora è prodotta nei periodi più freddi dell’inverno e la maturazione ottimale avviene dopo non meno di sei mesi. Si consuma piacevolmente in estate in grandi fette.

Vini

Asti DOCG

Arriva dal Mediterraneo orientale questo vitigno chiamato Apianae dai Romani per la sua particolare dolcezza, prediletta dalle api. A partire dal Medio Evo accompagnò la tavola dei principi con il nome di Moscatello o Greco. Nel ‘500 venne messa a punto la tecnica di preparazione del vino dolce e aromatico, un secolo dopo quella per il mantenimento della spuma nel vetro robusto, mentre fu Carlo Gancia nella seconda metà dell’800 a portare dalla Francia la rifermentazione in bottiglia. I terreni a prevalenza calcarea, argillosa o sabbiosa della zona di produzione garantiscono alle uve la migliore espressione qualitativa, soprattutto aromatica. Descrizione: Spuma fine, persistente (Spumante anche M. C.). Colore da giallo paglierino a dorato assai tenue (Spumante, anche M.C.) o più o meno intenso (Moscato), giallo dorato (V.T.). Odore caratteristico, delicato (Spumante) e spiccato (M.C.), caratteristico e fragrante di Moscato (Moscato), fruttato, molto intenso, caratteristico dell’uva appassita con note speziate (Vendemmia Tardiva). Sapore aromatico, caratteristico, dolce e equilibrato (Spumante, anche M.C.) o talvolta vivace (Moscato d’Asti), dolce, armonico, vellutato con sentori di uva Moscato che ricorda il favo del miele (V.T.). Titolo alcol. minimo: 9% (Spumante), 11% (M.C.), 10% (Moscato), 12% (V.T.). Abbinamenti: dolci lievitati e alla crema, panettone, crostata di frutta bianca. Vitigni: Moscato bianco 100% Disciplinare: Approvato DOC con DPR 09.07.67 (GU 199 – 09.09.1967), poi Approvato DOCG con DM29.11.93 (GU 287 – 07.12.1993)

..degli alimenti, Storie

Il caffé

La pianta del caffè è originaria degli altopiani etiopici, forse della regione di Kaffa, dalla quale potrebbe derivare il nome. In questi luoghi essa cresce allo stato selvaggio e da tempo immemorabile. Si ignora quando la pianta sia passata nello Yemen o se vi sia cresciuta spontaneamente. Certo è che gli abissini sono i primi a consumare il bunchum, un decotto di bacche e foglie e a preparare una pasta a base di grasso animale e di bacche di caffè pestate in un mortaio di legno o di pietra. La torrefazione del chicco dev’essere avvenuta inizialmente per caso e oggi si spiega la sua origini con l’ausilio di racconti leggendari. La torrefazione risale probabilmente al Quattrocento. Prima sia gli abissini che gli arabi preparano un infuso facendo bollire sia le bacche che le foglie della pianta del caffè.In un primo tempo il caffè viene abbrustolito in un recipiente posto sul fuoco. I chicchi vengono poi posti su di una pietra piatta. Oggi lo stesso procedimento avviene in fabbrica. In casa si utilizzano a lungo piccoli tamburi di forma cilindrica o sferica con una manovella, con i quali vengono abbrustolite piccole quantità di caffè.Il caffè torrefatto conserva le sua qualità per breve tempo. Per quanto riguarda la macinazione, essa deve adattarsi alla preparazione: fine per la macchina espresso, media per i filtri, più grossa per la caffettiera di tipo napoletano.L’ideale sarebbe abbrustolire e macinare il caffè consumato ogni giorno.

Ricette, Tradizioni

I Rabaton della Fraschetta

Il Rabatón è un piatto primaverile, in particolar modo del periodo pasquale, che era il momento della rinascita negli orti e nei campi, delle bietole da taglio , delle insalate, delle ortiche, ecc..ecc.., coincideva con l’arrivo dei pastori che dopo aver svernato in pianura e prima dell’alpeggio passavano per le case proponendo u sirass (la ricotta), se mancava la ricotta si usava la mascherpa, latte rappreso con l’aiuto di acqua e aceto, infine le uova, che le galline riprendevano a deporre dopo il fermo invernale.Il Rabaton (PAT) è un piatto contadino della pianura tra Alessandria e Tortona che prende il nome dal gesto che si fa per formare degli gnocchetti schiacciando e arrotolando tra le mani o su un piano di legno una piccola quantità di impasto (dal dialetto “rabatare” “rotolare”). Da un’amalgama di bietole lessate e tritate, ricotta fresca, uova, pangrattato, farina, grana grattugiato, sale e pepe, si ricavano rotolini lunghi quattro centimetri e spessi uno. Si possono consumare in brodo oppure scolati conditi con abbondante burro soffritto con aglio e salvia e con altro formaggio e passati a gratinare in forno.Ingredienti per 4 persone:250 g di ricotta scolata)800 g di biete2 cucchiai di maggiorana1/2 cucchiaio di prezzemolo1 spicchio di aglio80 g di Parmigiano Reggiano2 cucchiai di pangrattato2 uova6 cucchiai di farina 0050 g di burronoce moscata q.b.sale e pepe q.b.Descrizione:Mondare le biete, lessarle in acqua bollente salata e scolarle in acqua e ghiaccio per mantenerne cottura e colore e poi ricavarne circa 400 g strizzandole bene.Nel frattempo, far sgocciolare la ricotta dal suo latte.A questo punto, saltare le biete in padella con una noce di burro e uno spicchio di aglio e tritarle finemente.Mettere le bietole tritate in una ciotola e aggiungervi il prezzemolo e la maggiorana tritati, la ricotta sgocciolata, 40 g di parmigiano, il pangrattato, un uovo e un tuorlo e amalgamare il tutto regolando di sale, pepe e noce moscata. L’impasto non dovrà essere né troppo asciutto né troppo morbido.Adesso, formare i rabatòn con le mani ricavando una sorta di mezzo sigaro lungo circa 4 centimetri, dal diametro di 3 o 4 centimetri. Ci si può aiutare con la farina per arrotolarli.Lessare i rabatòn in abbondante acqua salata fino a che non risalgono in superficie, come si fa per gli gnocchi e i ravioli.Una volta cotti, i rabatòn possono essere messi in una pirofila imburrata, aggiungere il parmigiano grattugiato, il burro rimasto e far gratinare in forno caldo a 190-200°C per circa un quarto d’ora

Ricette

Coniglio all’ischitana

Documenti testimoniano che già dal principio del XVIII secolo i contadini allevavano i conigli in fosse scavate nel tufo di circa 2 m di profondità, al riparo dal vento, dal freddo, dal caldo e dalla pioggia. Questo allevamento in stato semiselvatico consentiva un‘alimentazione a base di erbe spontanee, a pieno vantaggio del sapore della carne. Oggi il coniglio da fossa è sempre più raro, ma grazie anche al Presidio Slow Food da qualche anno la tradizione è stata recuperata.  Ingredienti: 1 coniglio da circa 1,5 Kg, 150 gr di pomodorini maturi spezzettati e scolati, prezzemolo, basilico, 1 bicchiere di vino bianco, 1,5 dl di olio d’oliva, aglio, peperoncino, maggiorana, timo, basilico, rosmarino, sale e pepe.  Procedimento: Tagliate a pezzi il coniglio, lavatelo con il vino, asciugatelo con un panno asciutto e separatelo dalle interiora. Fate imbiondire nell’olio l’aglio e il peperoncino interi, in un tegame preferibilmente di terracotta, poi toglieteli e metteteli da parte. Rosolate tutti i pezzi del coniglio (comprese le interiora) nello stesso olio ben caldo e quando è ben colorito aggiungete aglio e peperoncino, sale e pepe e uno spruzzo di vino bianco. Fate cuocere a fuoco moderato per una trentina di minuti, rigirando di tanto in tanto ed eventualmente aggiungendo del brodo o altro vino. Unite i pomodori e le erbe aromatiche. Lasciate andare dolcemente per altri 20 minuti circa, sempre girando di tanto in tanto, fino a quando il fondo di cottura non sarà ben ristretto. Uno dei segreti per la riuscita di questo piatto consiste nel farlo “tirare” fin quasi a farlo attaccare, per poi allungare un po’ il fondo di cottura con brodo o acqua qualche minuto prima di spegnere la fiamma.

..degli alimenti, Storie

Il farro

Il farro è la forma primordiale del frumento, venne coltivato già dai celti e dagli egiziani. Oggi le zone coltivabili di farro le troviamo in tutta l´Europa. Il farro e il frumento sono parenti genetici. Però il farro è il cereale meno esigente: è più robusto, resistente al freddo e meno soggetto a malattie. In più il farro possiede un contenuto proteico più alto di altri cereali, più vitamine, acidi grassi essenziali, magnesio e aminoacidi. Il farro è famoso per essere stato la base dell’alimentazione delle legioni romane che partirono alla conquista del mondo, Veniva usato principalmente per preparare pane, focacce (libum) e polente Tuttavia, la sua coltivazione è andata via via riducendosi nel corso dei secoli, soppiantate dal grano tenero (discendente dal farro grande) e duro (discendente dal farro medio), con resa maggiore e costi di lavorazione inferiore.Oggi spesso la coltivazione del farro è associata all’agricoltura biologica e al tentativo di valorizzare zone agricole marginali, non adatte alla coltivazione intensiva di grani cereali. Nonostante l’alto costo, c’è stato un certo successo in questo lavoro di riscoperta, dovuto alle caratteristiche organolettiche e nutrizionali (maggiore contenuto proteico rispetto ad altri frumenti) di queste tre specie. Si sente parlare sempre più spesso di farro e delle sue proprietà alimentari. Al tempo dei romani, ne costituiva la base alimentare. Ma l’età è ben più venerabile: 7000 anni a.C. il farro era già coltivato; in Puglia dal 5000 a.C. Quindi una coltura che ha segnato un modo di vivere, di produrre e di alimentarsi.La coltivazione del farro in Italia sembra sia partita proprio dalla Puglia, quindi nei secoli successivi si è diffuso in numerose altre località risalendo il versante adriatico. In Italia settentrionale troviamo il farro in provincia di Cremona intorno al 4300 a.C.Le legioni romane conquistarono il mondo nutrendosi di questo cereale. La farina di farro era usata per preparare il puls che costituiva il piatto più conosciuto nell’antica Roma. Oggi il farro è consumato nelle zuppe e nelle minestre, i chicchi vestiti sono molto apprezzati in cucina quali componenti di numerose ricette. Il pane di farro si conserva più a lungo ed è caratterizzato da un aroma particolare, si presenta di grosso volume con una crosta saporita e croccante.

Ricette

La Sbroscia di Bolsena

La sbroscia è uno dei piatti a base di pesce più antichi di Bolsena. È una sorta di zuppa di pesce preparata dai pescatori sulle rive del lago, la tradizione vuole che questa zuppa fosse preparata con l’acqua del lago di Bolsena.In un recipiente di terracotta vengono messi i tranci di pesce possibilmente di diverse specie. Un pesce che non può mancare nella “sbroscia” è la tinca, ma si utilizzano anche: luccio, persico reale, anguilla, latterini ed anche granci e gamberi di lago. Ingredienti:     1 Tinca,   4 Pesce persico,    1 Luccio    1 Anguilla,    ½ Cipolla,    3 cucchiai d’olio    ½ Aglio,    1 Peperoncino    Mentuccia,    Pomodorini,    2 Kg. di Patate,    Sale     Venti fette di pane raffermo Preparazione:Provvedete alla pulitura del pesce, in un tegame di coccio fate soffriggere mentuccia, aglio e cipolla precedentemente tritati aggiungendo 2 cucchiai di olio.Pelate le patate e tagliatele a dadi.Tagliate a pezzetti i pomodorini e uniteli al soffritto insieme al pesce.Aggiungete circa un l,5 l di acqua (possibilmente di lago, come da tradizione), salate e proseguite la cottura a recipiente coperto per 30 m.Distribuite le fette di pane nelle scodelle e ricopritele con la zuppa, aggiungete l’olio rimastoE’ usanza mangiare la “sbroscia” con le mani.

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