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I Tipici

Crudo di Cuneo DOP

La zona di produzione ha da secoli una vocazione all’allevamento dei suini e alla lavorazione delle loro carni. I prodotti ottenuti, fra cui i prosciutti, hanno rappresentato una fonte alimentare insostituibile sia per l’apporto proteico che per i grassi, essendo l’area priva di fonti alternative quali l’olivo. Gli innumerevoli conventi e abbazie presenti sul territorio possedevano allevamenti e destinavano locali alla macellazione e lavorazione delle carni suine. Frammenti di libri contabili del Monastero degli Agostiniani di Fossano – Cussanio, del 1630 circa, parlano della stagionatura dei prosciutti nella “stanza del paradiso”, della destinazione della “noce” (parte nobile) per la tavola del vescovo e dell’abate e del “fiore” ai frati anziani e alle persone degne di riguardo. Il microclima condizionato da una parte dalle correnti d’aria tiepide e secche che salgono dalla Liguria e dalla Provenza e dall’altra dalle correnti d’aria che scendono dalla Val Susa creando una sorta di barriera ventosa, garantisce condizioni di bassa umidità relativa che, insieme alle escursioni termiche stagionali e giornaliere, contribuiscono in modo peculiare nella fase di stagionatura, agendo sul sapore e sull’odore caratteristico del prodotto. Il tempo di stagionatura minimo è di 10 mesi dall’inizio lavorazione, il peso compreso fra 7 e 10 Kg a stagionatura ultimata.

Vini

Barolo DOCG

Nasce nel cuore delle colline di Langa, a pochi chilometri a sud della città di Alba, in un suggestivo itinerario di colline cesellate dalla mano esperta dell’uomo e sorvegliate da imponenti castelli medioevali. La prima citazione del “Barol” risale al 1751 e, sempre nello stesso periodo, una relazione agraria informa che il maggior reddito dell’omonimo comune deriva dal vino e dalle vigne ben coltivate. Vini buoni ma ancora mal vinificati e dolciastri, finché nell’Ottocento la marchesa Falletti di Barolo non chiama dalla Francia l’enologo francese Louid Oudart a correggerne gli errori di vinificazione. E’ nelle tenute del padre che Cavour inizia la sperimentazione viticola ed è dal castello di Grinzane che nel 1848 escono le prime 100 bottiglie di “vino vecchio 1844”, opera di Oudart e progenitrici del moderno Barolo. Descrizione: Colore rosso granato. Odore intenso e caratteristico. Sapore asciutto, pieno, armonico. Titolo alcol. min. 13%. Invecchiamento obbligatorio minimo di 36 mesi (60 per la Riserva), di cui 24 in botti di rovere o castagno, talvolta in barriques, ma può stare in bottiglia anche oltre i 20 anni evolvendosi ancora. Abbinamenti: arrosti di carne rossa, brasati, cacciagione, selvaggina, cibi tartufati, formaggi a pasta dura e stagionati. Ottimo anche come vino da meditazione e il Barolo chinato con il cioccolato. Tipologie: Barolo, Barolo Riserva, Barolo e Barolo Riserva con una delle “menzioni geografiche aggiuntive” alle quali può essere aggiunta la menzione “vigna” seguita dal relativo toponimo o nome tradizionale. La denominazione «Barolo chinato» è consentita per i vini aromatizzati con base di vino «Barolo». Vitigni: Nebbiolo 100% Disciplinare: Approvato DOC con DPR 23.04.1966 (G.U.146 – 15.6.1966), poi approvato DOCG con DPR 01.07.1980 (GU 21 – 22.01.1981)

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L’ulivo e l’olio

La prima olivicultura si sviluppa in Palestina, in Siria e a Creta, luoghi d’origine delle più antiche civiltà. Nella celebre isola si sono trovate anfore per la conservazione dell’olio, vasi di terracotta, mortai di pietre e piccole, primitive presse e i resti di un torchio. Altre fonti che ci parlano della produzione di olio e della sua commercializzazione sono costituite dalle tavole d’argilla della Stanza delle basi delle colonne a Cnosso, un vero e proprio libro di conti dell’amministrazione del palazzo, e ancora dalla pittura murale (1500 a.C.). Il trasporto dell’olio avviene con navi colme di pithoi, vasi e otri in pelle di capra destinati ai paesi affacciati su tutto il Mediterraneo e in particolare all’Egitto, dove sono preferiti i cosiddetti vasi a staffa, che troviamo raffigurati all’interno delle tombe dei faraoni.  Qui l’olio ha un ruolo di primaria importanza nei riti religiosi e funebri: vi sono ramoscelli d’ulivo tra i doni rinvenuti nel sepolcro di Tutankamen; ghirlande di fiori e ramoscelli d’ulivo compongono i colletti cinti dai sacerdoti durante il rito dell’inumazione; l’olio viene usato per ungere i corpi e le teste dei defunti da mummificare; durante le sacre funzioni, solo chi ha capelli, viso e piedi spalmati d’olio può avvicinarsi agli idoli. Infine, piante di ulivo sono comprese tra le offerte e i lasciti votivi . Per quanto riguarda la fascia costiera tra Egitto e Palestina, l’importanza della coltivazione dell’ulivo tra gli ebrei è testimoniata dalle innumerevoli citazioni presenti nella Bibbia, prima tra le quali quella relativa al ramoscello che la colomba porta a Noè quale prova della fine del diluvio. Con gli ebrei vivono inoltre i filistei produttori di olio per l’illuminazione e per i balsami: una campagna archeologica della prima metà degli anni ottanta scopre a Tel Mique Akron, vicino a Tel Aviv, un enorme impianto per la lavorazione delle olive con quasi 100 presse e macine risalente al 1000 a.C. circa. Esso può essere considerato uno dei più importanti complessi industriali dell’antichità, la cui produzione annua si aggira tra le 1.000 e le 2.000 tonnellate. Nel 1874 l’archeologo tedesco Schliemann dà il via ad una famosa campagna di scavi a Micene, culla della civiltà egea e nello splendore della residenza regia trova semi d’ulivo, lampade ad olio, recipienti con resti oleosi. Lo stesso accade a Tirinto e in tutta l’Argolide.Gli scavi successivi confermano gli entusiasmi iniziali: in un insediamento ai piedi della fortezza micenea si scopre, tra le altre, l’abitazione di un commerciante d’olio con 30 bricchi chiusi e sigillati e 11 pithoi che risalgono al XIV-XIII secolo a.C. Ricerche più recenti (1954-1956) a Micene nella Casa delle sfingi e a Pylos, nel Peloponneso meridionale, portano alla luce liste dettagliate di aromi quali il finocchio, sesamo, giunco, sedano, crescione, menta, salvia, rosa, ginepro, da mescolare con l’olio per la fabbricazione di unguenti.Se gli scavi archeologici hanno confermato le suggestioni contenute nell’Iliade e nell’Odissea, innumerevoli sono i riferimenti alla centralità della pianta dell’ulivo e dei suoi frutti in epoca successiva soprattutto nell’arte greca, nei bassorilievi, nella pittura e sui vasi ed anfore dipinti. Se le fonti ci raccontano del consumo che viene fatto nel mondo antico delle olive e dell’olio d’oliva nell’alimentazione, nella cosmesi, nella medicina, nel culto e nella casa esse dicono molto anche sul lavoro e la tecnica di coltivazione, sulla raccolta e sulla produzione del frutto e dei suoi derivati. Momenti decisivi sono l’aratura, la potatura, la raccolta.Ai tempi di Plinio passa un certo tempo tra la raccolta e la molitura al torchio, che avviene in un locale dove si trovano le macine e la pressa. Un notevole progresso è costituito dall’utilizzo del torchio a vite in legno, utilizzato a partire dal I secolo a.C.

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La polenta

La polenta  di oggi  discende da impulsi antichi. La ricetta, allora,  variava a secondo del luogo, del tempo e delle persone,. I primi ingredienti (orzo, farro, piselli, fagioli, eccetera) erano indigeni. Il granturco è stato introdotto a seguito del ritorno di Colombo dall’America. Questo particolare prodotto di base è stato facile farlo crescere anche in Europa poichè facilmente adattabile. In tutti i casi, l’alimento “ polenta” era conosciuto  come poco costoso e facile da cucinare .e come tale consumato dalle classi più povere della società. Il cibo italiano rispecchia la storia d’Italia. Una componente importante di questa storia è il record di arrivi, per un periodo di 3000 anni, di ondate di popoli invasori. Alcuni di loro arrivarono e se ne andarono; altri rimasero. Ogni nuova razza ha portato con sé i propri costumi, le proprie tradizioni e le proprie abitudini alimentari. Tre di loro, in particolare, ha posto le basi per la cucina italiana di oggi. Furono gli Etruschi, i Greci ei Saraceni … per quanto riguarda la polenta ognuna delle tre ha lasciato un marchio specifico. quella etrusca era una specie di poltiglia a base di grano, e gli altri una sorta di torta friabile. Non sembra un cibo  particolarmente gustoso, ma con  esso le legioni romane conquistarono il mondo. i Romani, lo chiamavano puls, e più tardi pulmentum. E oggi polenta, e si mangia in tutto il nord Italia,“L’impero romano aveva effettivamente eseguito un servizio importante per la cucina degli Etruschi.,infatti è ampiamente diffusa. E l’esempio più significativo  è quello del primo piatto universale di base, che ha dato l’Etruria a Roma, la pulmentum, Il suo discendente moderno, la polenta si consuma infatti in quella che fu la frangia settentrionale della conquista etrusca, Piemonte, Lombardia e le Venezie .. . ” “… Nel tracciare la storia delle risorse in Italia dei prodotti gastronomici, non dobbiamo trascurare il fatto che in gran parte, questo piatto antico, nella  storia ha svolto un ruolo vitale nel nutrimento dei poveri, offrendo loro un arma fondamentale nella loro lotta quotidiana per la sopravvivenza . In questo senso, dobbiamo sottolineare che l’uso della polenta,  rivela la continuità della cucina italiana, che risale a molto prima del Medioevo, per i costumi degli antichi popoli italici che abitavano la penisola nell’antichità . Questo era un alimento fondamentale nella dieta dei contadini, fin dall’epoca romana, quando era  preparato con farina di farro. Nel corso del tempo, il farro è stato usato insieme a farina di frumento,  e con altre varietà di minor valore, come l’orzo e il miglio. Dato che non erano idonei  per fare il pane, queste colture avevano la funzione di  trasmettere e diversificare la cultura primordiale di polenta …a Lucca nell’anno 765, compare in un documento dove v’è scritto riferimenti al cibo da distribuire tre volte alla settimana in elemosina ai poveri… la polenta  .Polenta e la zuppa sono gli alimenti dei poveri destinati soprattutto a placarne i morsi della fame che hanno lasciato tracce significative nei manuali di cucina rivolti alle classi superiori. Il piatto di ‘semi spezzati ‘ raccomandato dallo scrittore napoletano del Liber de coquina all’inizio del XIV secolo è davvero un tipo di polenta fatta con fagioli, ampiamente documentato come piatto tipico della dieta dei contadini. La prima vera  polenta deve essere stata un fenomeno interessante da vedere. questo cibo di un giallo sorprendente,  più fresco del pane. Alcuni credono che la polenta sia una specialità del Nord Italia ma la polenta è così popolare in Italia meridionale, in particolare intorno a Benevento e Avellino, dove la polenta e salsiccia è uno dei piatti preferiti “. Mille sono i modi per gustarla.., appena cotta riversarla, tagliarla a fette con un filoe farne strati con burro e formaggio …ma  e’ il Veneto,  che ha portato  la polenta ad alti liveli culinari.. la polenta  pastizzada, stratificazione di polenta con carne di vitello macinata, funghi e creste di gallo in salsa di pomodoro… è la sua famosa polenta e osei  con – polenta fresca, gli uccelli migratori, il vino dalla cantina popolare e gioioso “. 

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Il pomodoro

Provate a confrontare il pallido squallore di un piatto di spaghetti “in bianco” con il caldo e acceso colore di un piatto di vermicelli “ca’ pommarola ‘n coppa”. Avrete la piu’ convincente dimostrazione di come la fantasia, l’estrosita’, e l’intelligenza dei popoli meridionali abbiano fatto, del pomodoro, il loro capolavoro. Il seducente ed invitante aspetto della polpa rossa, il sapore dolce-acidulo del frutto crudo e i diversi e gustosi sapori delle salse che da esso si ricavano, non hanno tuttavia evitato al pomodoro, al suo esordio in Europa verso la fine del secolo XVI, la stessa ostilita’ e diffidenza che gli europei avevano riservato a tutti gli altri numerosi membri della numerosa famiglia delle “solanacee” giunte dal Nuovo Mondo. Inizialmente fu paragonato alla mandragora le cui radici ricordano un corpo umano, a quel tempo era considerata dalla gente il “pomo del diavolo” ma al pomodoro riservarono il nome di “pomo d’amore” poiche’ veniva considerato afrodisiaco. Agli inizi del XVII secolo il pomodoro fu ammesso in Italia solo come elemento decorativo. Se della patata si pote’ affermare ancora nel 1780 che “solo un gusto crudo ed uno stomaco di cuoio si avvezzeranno alla patata”, del pomodoro si disse che provocava malesseri e disturbi tant’e’ che gli fu affibbiato il nome di Lycopersicum ovvero “pesca del lupo”. Il senese Pier Andrea Mattioli lo chiamo’ “pomo d’oro”, senza alcun riferimento alle qualita’ commestibili, ma solo perche’ i primi frutti giunti in Europa non erano rossi bensi’ gialli.Il botanico gastronomo Vincenzo Corrado (1734-1836), nel suo “Cuoco galante” pubblicato per la prima volta a Napoli nel 1773, lo descriveva come “frutto” color zafferano Trascorsero piu’ di due secoli prima che il selvaggio nome di “pesca del lupo” venisse cambiata nel mite e casereccio pronome di “esculentum” cioe’ mangereccio. L’impiego della pianta di pomodoro come ornamento dura per secoli ed essa si diffonde in tutto il bacino del Mediterraneo, trovando nel sud Italia il clima più adatto al suo sviluppo.La documentazione relativa all’origine del suo uso alimentare è scarsa: le prime sporadiche segnalazioni di impiego del suo frutto come alimento commestibile, fresco o spremuto e bollito per farne un sugo, si registrano in varie regioni dell’Europa meridionale del XVII secolo.Soltanto alla fine del Settecento la coltivazione a scopo alimentare del pomodoro conosce un forte impulso in Europa, principalmente in Francia e nell’Italia meridionale. Ma mentre in Francia il pomodoro viene consumato soltanto alla corte dei re, a Napoli si diffonde rapidamente tra la popolazione.Nel 1762 Lazzaro Spallanzani ne definisce le tecniche di conservazione notando, per primo, come gli estratti fatti bollire e posti in contenitori chiusi non si alterino.Nel 1809, un cuoco parigino, Nicolas Appert, pubblica l’opera “L’art de conserver les substances alimentaires d’origine animale et végétale pour pleusieurs années”, dove fra gli altri alimenti è citato anche il pomodoro .Negli Stati Uniti ed in genere nelle americhe, da cui proveniva, l’affermazione del pomodoro come ortaggio commestibile trova invece molte più difficoltà per la diffusa convinzione popolare dei suoi poteri tossici.Nel corso dell’Ottocento il pomodoro viene inserito nei primi trattati gastronomici europei, come nell’edizione del 1819 del Cuoco Galante a firma del cuoco napoletano di corte Vincenzo Corrado, dove sono descritte molte ricette con pomodori farciti e poi fritti: «Per servirli bisogna prima rotolarli su le braci o, per poco, metterli nell’acqua bollente per toglierli la pelle. Se li tolgono i semi o dividendoli per metà, o pure facendoli una buca».Nel 1839, il napoletano don Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nella “Cucina casarinola co la lengua napoletana”, in appendice alla seconda edizione della “Cucina teorico pratica”, fornisce la ricetta per una salsa: i pomodori bolliti, passati al setaccio, fatti restringere ulteriormente con sugna ed olio, sale e pepe, forniscono una salsa da mettere sopra il pesce, la carne, i polli, le uova e sopra ciò che si desidera.È nella stessa epoca che si realizza il connubio tra pasta e pomodoro e tra pizza e pomodoro.Nella seconda metà del secolo l’Inchiesta Jacini conferma come il consumo di pomodoro sia diffuso nell’Italia meridionale e soprattutto nella provincia di Napoli, dove è il condimento più utilizzato per i maccheroni e con essi è l’alimento più comune.L’apporto calorico del pomodoro, o più in generale il suo valore nutritivo, è quasi irrilevante ed esso è l’unica coltura al mondo di grande utilizzo priva di un preciso ruolo dietetico. Tuttavia il cambiamento delle abitudini alimentari nel Meridione anche a causa delle migliorate condizioni di vita hanno reso il pomodoro un condimento eccezionale.Al suo successo contribuisce la semplice conservabilità dei suoi derivati, esso è tuttavia largamente utilizzato anche fresco come contorno e nelle insalate.

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a tavola con Napoleone Bonaparte

Il 14 giugno 1800 si combatté la battaglia di Marengo. Fu la più celebre delle battaglie napoleoniche in Italia, la più dura ma definitiva. Alle tre del pomeriggio Napoleone aveva perso: alle otto della sera il suo trionfo era completo. Il Marengo d’oro fu coniato dai francesi nel 1801 proprio per celebrare il buon esito della battaglia; l’Imperatore chiamò così perfino il suo cavallo e Il pollo alla Marengo, preparato con gamberi di fiume e funghi, fu cucinato sul campo per Napoleone che era goloso del pollo, dal suo cuoco italiano che, a corto di rifornimenti, optò per questa strana combinazione ed il generale francese la trovò di suo gusto. Pollo alla marengo: Ingredienti (per 6 persone) 1 pollo novello di circa 1 kg a pezzi, 4 Pomodori, 1 spicchio d’aglio, 1 cipolla bianca, un bicchiere di vino bianco secco, brodo di carne q.b., 18 gamberi di fiume, 6 uova, crostino di pane q.b., 4 cucchiai d’olio extravergine di oliva per guarnire,sale e pepe. prezzemolo Preparazione Lavare ed asciugare i pezzi di pollo; metterli a rosolare in padella con l’olio a fuoco vivace, salare e pepare. Quando i pezzi di pollo sono ben dorati, toglierli dalla padella e scolare l’olio. Nella stessa padella mettere i pomodori pelati e privati dei semi, la cipolla affettata sottilmente, l’aglio schiacciato, il vino bianco. Far ridurre aggiungendo un mestolo di brodo di carne; unire il pollo e far insaporire nell’intingolo. Cuocere i gamberi in poco vino bianco, friggere le uova e comporre il piatto: mettere al centro il pollo col suo intingolo e contornarlo con crostini fritti, i gamberi e le uova.

I Tipici

Mozzarella di Bufala Campana DOP

Le origini della Mozzarella di Bufala Campana Dop – oggi prodotta in Campania, Lazio, Molise e Puglia – sono collegate alla presenza del bufalo in Italia, secondo alcuni originario dell’India orientale, secondo altri di origine autoctone e secondo altri ancora introdotto dai Longobardi o dai Normanni intorno all’anno 1000. La confusione forse è dovuta al fatto che i Romani chiamavano bubalus buoi, alci ed altri ruminanti. Il nome della mozzarella, che deriva dall’operazione finale di formatura a mano, viene citato per la prima volta da un cuoco della corte papale nel XVI secolo. Ma già nel XII secolo, in occasione della festa del santo patrono, i monaci del monastero di S. Lorenzo in Capua nel casertano usavano offrire una “mozza o provatura” accompagnata da un pezzo di pane. A metà del Settecento i Borboni crearono un allevamento di bufalo e un caseificio nella tenuta reale di Carditello. Nelle piane del Volturno e del Sele sono ancora visibili le antiche bufalare, costruzioni circolari in muratura con al centro un camino per la lavorazione del latte e piccoli ambienti destinati all’alloggio dei bufalari. Descrizione: Latticino freso a pasta filata ricavato esclusivamente da latte di bufala intero fresco, particolarmente ricco in grasso e proteine. Al termine della maturazione, la cagliata viene ridotta a strisce, tritata e posta in appositi mastelli. Segue la lavorazione a mano in acqua bollente, fino a farla “filare” per ottenere la particolare consistenza e il bouquet determinati dalla microflora che si sviluppa durante la lavorazione. Viene quindi mozzata in singoli pezzi nelle forme e dimensioni previste e posta prima in acqua, fino a rassodamento, e poi in salamoia. Disciplinare: Reg. CE n. 1107 del 12.06.96 (GUCE L 148 del 21.06.96)

I Tipici

Castelmagno DOP

Il Castelmagno deve il suo nome al comune omonimo della Valle Grana, nelle Alpi Cozie, in Piemonte, dove viene prodotto da tempo immemorabile.Il primo documento ufficiale a registrare l’esistenza e l’apprezzamento del Castelmagno è una sentenza arbitrale del 1277. la sentenza riguarda l’usufrutto dei pascoli delle Grange Martini, nella Comba di Narbona, ai confini tra Castelmagno e Celle Macra.Nella controversia, il comune di Castelmagno ebbe la peggio ed il prezzo della sconfitta impose il pagamento di alcune forme di formaggio come canone annuo da versare al marchese di Saluzzo.Apprezzato per la sua qualità, fin dalle sue origini, è stato però riscoperto a livello nazionale ed internazionale solo in anni recenti grazie all’opera di razionalizzazione e standardizzazione delle tecniche di produzione che, seppur tramandate da secoli nelle loro linee generali, restano completamente artigianali e registrano molte varianti legate ai luoghi, ai tempi e ai metodi di lavorazione adottati dai singoli produttori che pur riducendosi di numero, raffinano e migliorano le tecniche di lavorazione del Castelmagno, adoperandosi per una più attenta tutela del marchio.Oggi, la zona di produzione e stagionatura – da cui deve provenire anche il latte destinato alla trasformazione – è rigorosamente limitata, dal disciplinare di produzione, ai tre comuni dell’alta valle: Castelmagno appunto, Pradleves e Monterosso Grana. Le caratteristiche del Castelmagno sono legate all’origine della materia prima, al luogo e al metodo di trasformazione.La particolare varietà e la fragranza delle erbe presenti nei pascoli – caratterizzati da una flora costituita da graminacee dei generi Poa e Festuca – dell’alta valle Grana costituiscono il presupposto fondamentale per comprendere appieno la qualità, il sapore e il profumo di questo eccellente prodotto caseario .Il latte proviene da vacche appartenenti alle razze tipiche dell’arco alpino in particolare la Piemontese, la Bruna Alpina e le varie Pezzate Rosse.Il latte destinato alla produzione del Castelmagno deve essere esclusivamente crudo e proveniente da un minimo di due a un massimo di quattro mungiture consecutive (al quale possono essere aggiunte piccole quantità di latte ovino o caprino).Dopo l’eventuale scrematura per affioramento, va riscaldato alla temperatura di 30-38 °C la coagulazione avviene in un tempo tra i 30 e i 90 minuti.Quando il coagulo ha raggiunto un sufficiente grado di rassodamento lo si rivolta. Successivamente lo si rompe mantenendolo sempre all’interno del siero di lavorazione chiamato tradizionalmente “la laità”.La rottura successiva viene effettuata dapprima grossolanamente e poi in modo sempre più fine sino ad ottenere granuli caseosi omogenei delle dimensioni da un chicco di mais a nocciola.La cagliata viene messa in una tela asciutta e pulita chiamata “risola” in tessuto vegetale o sintetico. La risola va poi eventualmente pressata e appesa oppure appoggiata su un piano inclinato. Si lascia, quindi, riposare per almeno 18 ore, necessarie perché il siero residuo fuoriesca senza l’azione di pressature.Trascorso questo periodo la cagliata viene messa in recipienti immersa nel siero che con il passare delle ore potrà diminuire ed infine coperta per un periodo che va dai 2 ai 4 giorni.Successivamente viene rotta e poi finemente tritata, rimescolata e salata.Il prodotto viene avvolto in una tela di tessuto vegetale o sintetico ed introdotta nelle “fascelle” di formatura in legno o altro materiale idoneo ove rimane per almeno 1 giorno ad una adeguata pressatura manuale o meccanica. Sulla base delle favelle viene posizionata una matrice recante il marchio di origine che sarà impressionato sulla forma.È consentita un’ulteriore salatura delle forme a secco per dare colore e consistenza alla crosta del formaggio.La maturazione avviene in grotte naturali ed umide o comunque in locali che ripetano dette condizioni ambientali per un periodo minimo di 60 giorni su assi di legno o altro materiale idoneo.Il formaggio Castelmagno prodotto e stagionato può portare la menzione aggiuntiva “di Alpeggio” se: il latte proviene esclusivamente da vacche, capre e pecore mantenute al pascolo in alpeggio per il periodo compreso tra maggio e ottobre e la caseificazione è effettuata in malga. Disciplinare: Reg. CE n. 1263 del 01.07.96 (GUCE L 163 del 02.07.96) fonte comunità montana vallegrana

Vini

Barbaresco DOCG

La coltivazione del Nebbiolo in questa zona ha origini molto antiche: secondo alcuni autori furono i Galli i primi ad essere attratti dal vino Barbaritium, secondo altri deriva il suo nome dai Barbari che causarono la caduta dell’Impero Romano. Nel 1984 Domenico Cavazza fonda la Cantina Sociale di Barbaresco dove vengono vinificati 858,9 miriagrammi di Nebbiolo, dando vita ad un vino che con il Barolo condivide le varietà di vitigno (lampià, rosé, michet) ma ha un invecchiamento inferiore. Il Barbaresco nasce nelle Langhe, dove le marne tufacee di un colore grigio-bluastro danno luogo a colline rotondeggianti favorevoli alla coltivazione della vite, ma ha anime diverse legate alle differenti caratteristiche dei terreni: dai colli intorno a Treiso, più alti e stretti, che consentono la coltivazione solo nelle zone con migliore esposizione e danno vini con maggiore finezza ed eleganza, a quelli di Barbaresco e Neive da cui nascono vini caratterizzati da una parte da struttura, pienezza tannica e potenza, dall’altra da morbidezza, ricchezza fruttata e finezza, con veri e propri cru come Gallina e Santo Stefano. Descrizione: Colore rosso granato. Odore intenso e caratteristico. Sapore asciutto, pieno, armonico. Titolo alcol. min. 12,5%. Con almeno 2 anni di affinamento, di cui almeno 1 in botte di rovere o castagno (4 per la Riserva), vanta un bouquet di eccezionale finezza e armonia ed un gusto robusto. Abbinamenti: primi piatti a base di tartufo bianco e funghi porcini, grandi arrosti, brasati, selvaggina anche in umido, formaggi stagionati o piccanti. Tipologie: Barbaresco, Barbaresco Riserva, Barbaresco e Barbaresco Riserva con una delle «menzioni geografiche aggiuntive» alle quali può essere aggiunta la menzione «vigna» seguita dal relativo toponimo. Vitigni: Nebbiolo 100%. Disciplinare: Approvato DOC con DPR 23.04.1966 (G.U.145-14.06.1966), poi approvato DOCG con DPR 03.10.1980 (G.U. 242 – 03.09.1981)

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