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Ricette, Tradizioni

Il Bonét

Il bonèt  è un budino di antichissima tradizione, tipico del Piemonte.In lingua piemontese il termine bonèt indica un cappello o berretto tondeggiante, la cui forma ricorda quella dello stampo in rame, a tronco di cono basso in cui viene cotto il budino.Esistono  due tipi  di bonèt. Il bonèt tradizionale, oggi meno diffuso, è detto “alla monferrina” e non propone nè cacao né cioccolato, ma solo uova, latte, zucchero e amaretti.Diversi documenti delle corti minori del Piemonte indicano come il dolce  fosse già presente nei banchetti del XIII secolo. Ingredienti: 10 tuorli d’uovo, 8 cucchiai di zucchero, 100 gr. amaretti, un bicchiere di rhum, 50 gr. cacao, 0,700 lt. di lattePreparazione:Sbattere in una ciotola i tuorli con lo zucchero fino ad ottenere una massa compatta.Aggiungere il cacao, gli amaretti sbriciolati e il rhum. Quando tutto sarà omogeneoaggiungere il latte freddo e mescolare. A parte in un piccolo tegame fare cuocere un po’ d’acqua con 5 cucchiai di zucchero. Quando lo zucchero prende una colorazionemarroncina, versarlo sul fondo della teglia, aspettare che si raffreddi e versare il composto.Cuocere a bagno maria per 50 minuti. A cottura ultimata, lasciare riposare alcune ore in luogo fresco. Capovolgere e servire freddo.

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Torta Pasqualina

Questa torta dalle origini assai antiche è una famosa specialità genovese, chiamata così perchè si usava (e si usa) prepararla e mangiarla soprattutto a Pasqua. L’esistenza della torta pasqualina genovese è documentata dal XVI secolo, quando il letterato Ortensio Lando la cita nel Catalogo delli inventori delle cose che si mangiano et si bevano. Allora era nota come gattafura, perché le gatte volentieri le furano et vaghe ne sono, ma anche lo stesso scrittore ne era ghiotto tanto da scrivere: “A me piacquero più che all’orso il miele”. Nei secoli scorsi uova e formaggio, ingredienti essenziali della pasqualina, erano alimenti che si consumavano solo nelle grandi ricorrenze.Rappresenta il clou del pranzo pasquale e in passato era l’apoteosi dell’abilità delle casalinghe.Ingredienti:Per la pasta: 400 g di farina bianca 2 cucchiai d’olio extravergine d’olivasale acquaPer il ripieno:500 g di bieta200 g di ricotta (o di latte cagliato)50 g di burro fuso6 uova1 cucchiaio di maggiorana fresca (1 cucchiaino se essiccata)4 cucchiai di parmigiano grattugiato4 cucchiai di pecorino grattugiato1 bicchiere di latte1 bicchiere d’oliosale e pepePreparazione:Impastare la farina con l’olio e il sale; aggiungere man mano tanta acqua tiepida quanto basta per ottenere un impasto consistente e morbido; lavorarla finché si formino delle bollicine d’aria. Coprire con un tovagliolo umido e far riposare (chi lo volesse può usare pasta sfoglia surgelata).Stendere 6 sfoglie il più sottili possibile con un mattarello, perché questo piatto tradizionale ligure è tanto più buono quanto più sottili sono le sfoglie di pasta.Pulire la bieta, lavarla e cuocerla in una casseruola con poco sale, senz’altro. Cuocere a fuoco basso, e con il coperchio, per 6 minuti. Appena cotta strizzarla bene, tritarla finemente e metterla in una ciotola grande.Aggiungere la ricotta sbriciolata (o il latte cagliato), 2 uova intere, il parmigiano grattugiato, metà pecorino e la maggiorana: se l’impasto è troppo solido, ammorbidire con il latte.Foderare con una sfoglia uno stampo apribile, unto d’olio, ungere la sfoglia con un pennello intinto nell’olio e sovrapporne a una a una, le altre due, ungendole sempre con l’olio tranne l’ultima. Disporre il ripieno e con un cucchiaio scavare 4 incavature in cui si porranno le uova intere, crude. Salare e cospargere con il resto del pecorino. Chiudere con una sfoglia di pasta e sovrapporvi le altre due, sempre ungendo con il pennello da cucina la superficie tra una e l’altra.Sigillare con i ritagli di pasta formando un cordone tutt’intorno al bordo. Ungere la superficie con un po’ d’olio e perché risulti più dorata, con parte di un uovo intero battuto; bucare la superficie con uno stuzzicadenti,  facendo attenzione a non rompere le uova e infornare in forno già caldo, a 200°C, per 40 minuti.Si può servire tiepida, ma anche fredda, durante il pranzo del lunedì di Pasqua di Bruno Cantamessa

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Bazzoffia dell’Agro Pontino

Zuppa di verdure e legumi (un tempo aggiungevano anche le lumache) tipica della provincia di Latina, da cucinare solo nelle poche settimane tra la primavera e l’estate in cui negli orti si trovano tutti gli ingredienti freschi. Ingredienti1 lattuga romana lavata, asciugata e tagliata a listarelle1 cipolla tritata3 carciofi privati delle foglie esterne più dure e tagliati a spicchi150 gr di fave fresche sgranate300 gr di piselli freschi sgranati4 cucchiai di olio extravergine di oliva4 fette di pane casereccio4 uova Preparazione: Rosolare la cipolla nell’olio, unire le verdure e coprire con 1.5 l di acqua bollente, salare e pepare. Coprire con un coperchio e cuocere a fuoco basso fino a quando le verdure non diventeranno morbide. Rompere delicatamente le uova in una scodella e unirle intere alla zuppa, continuando la cottura per altri 5 minuti. Disporre le fette di pane in scodelle individuali, deporre su ognuna un uovo e versare la zuppa bollente. Spolverizzare con pecorino grattugiato e servire ben caldo. Abbinamenti: Vini: Atina Rosso, Cesanese di Affile, Vignanello Rosso fonte: Il manuale del Borghigiano

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La pasta

Il vocabolo pasta viene dal termine păsta(m), dal greco πάστα con significato di ‘farina con salsa’ che deriva dal verbo pássein cioè ‘impastare’. Si attesta a partire dal 1310 anche se a cercare le origini della pasta, chiamata con altri nomi, si può tornare indietro fin quasi all’età neolitica (circa 8000 a.C.) quando l’uomo cominciò la coltivazione dei cereali che ben presto imparò a macinare, impastare con acqua e cuocere o seccare al sole per poterli conservare a lungo. La pasta è infatti un cibo universale di cui si trovano tracce storiche in tutto il continente euroasiatico. Acquisisce una posizione particolarmente importante in Italia e in Cina dove si sviluppano due prestigiosi filoni di tradizione gastronomica che si completano a vicenda ma di cui rimane difficile stabilire i rapporti proprio per la complessità dei percorsi intermedi. La testimonianza più antica, databile intorno ai 4000 anni fa, è data da un piatto di spaghetti di miglio rinvenuti nel nord-ovest della Cina sotto tre metri di sedimenti. L’invenzione cinese viene tuttavia considerata indipendente da quella occidentale perché all’epoca i cinesi non conoscevano il frumento caratteristico delle produzioni europee e arabe. In verità possiamo trovare tracce di paste alimentari già tra gli Etruschi, Arabi, Greci e Romani. Se, idealmente, il mito della pasta non si può non farlo cominciare da Cerere, dea delle messi e dei cereali, le sue prime tracce storiche emergono da una tomba etrusca di Cerveteri che si presenta ornata da un curioso motivo di coltelli, mattarelli e rotelle che sembrano quelle ancora oggi usate per la preparazione dei ravioli. E proprio gli Etruschi pare preparassero delle lasagne di farro, un cereale molto simile al frumento. Per il mondo greco e quello latino numerose sono le citazioni fra gli autori classici, fra cui Aristofane e Orazio, che usano i termini làganon (greco) e laganum (latino) per indicare un impasto di acqua e farina, tirato e tagliato a striscie. Queste lagane, ancora oggi in uso nel sud d’Italia, considerate inizialmente cibo dei poveri, acquisiscono tanta dignità da entrare nel quarto libro del De re coquinaria del leggendario ghiottone Apicio. Egli ne descrive minuziosamente i condimenti tralasciando le istruzioni per la loro preparazione, facendo supporre che fosse ampiamente conosciuta. La più importante novità del Medioevo per la costituzione della moderna categoria di pasta, fu l’introduzione di un nuovo metodo di cottura e di nuove forme. Il sistema della bollitura, usato nell’antichità solo per pappe o polente di diversi cereali, sostituì il passaggio al forno dove invece le antiche lagane erano poste direttamente con il condimento come liquido di cottura. Apparvero le paste forate e quelle ripiene; l’invenzione della pasta secca a lunga conservazione, attribuita generalmente agli arabi bisognosi di provviste per i loro spostamenti nel deserto, fu invece la novità che più influì nelle abitudini alimentari e nei commerci. Fu nel Medioevo che sorsero le prime botteghe per la preparazione professionale della pasta che dalla Sicilia, impregnata di cultura araba parallelamente al Levante spagnolo, già a metà del XIII secolo si installarono anche a Napoli e Genova, città che avranno poi grande partecipazione nell’evoluzione e nel successo delle paste alimentari. In un secondo tempo aprirono anche in Puglia e in Toscana e nel XIV secolo vennero costituite le prime corporazioni di pastai. La tecnica dell’essiccazione permise alla pasta di affrontare lunghi percorsi via mare o all’interno del continente per i quali si specializzarono i commercianti genovesi. Anche la Liguria divenne luogo di produzione di paste secche mentre l’Emilia-Romagna, la Lombardia e il Veneto rimarranno legati all’uso della pasta fresca che tuttora persiste. Oltre a croseti (pasta corta) e ancia alexandrina (pasta lunga), nel trecentesco Liber de coquina viene spiegato molto dettagliatamente il modo di fare lasagne e si consiglia di mangiarle con “uno punctorio ligneo”, un attrezzo di legno appuntito. In effetti, mentre nel resto d’Europa per mangiare si useranno le mani fino al XVII-XVIII secolo, in Italia si ebbe una precoce introduzione della forchetta più comoda per mangiare la pasta scivolosa e bollente introdotta nel sistema alimentare.  Solo nel quattrocentesco Libro de arte coquinaria di Maestro Martino si trovano le prime indicazioni tecniche per la preparazione dei “vermicelli”, “maccaroni siciliani” (per la prima volta il termine indica pasta corta forata) e “maccaroni romaneschi” (tipo tagliatelle). Le ricette dell’epoca prevedevano che la pasta fosse servita come contorno ad altre vivande e specialmente con la carne. Questo gusto, insieme a quello per la pasta scotta, si trova ancor oggi fuori dall’Italia dove invece nel ‘600 Giovanni del Turco comincia a consigliare una cottura più breve che lasci i maccheroni “più intirizzati e sodi”. Classico anche l’abbinamento con formaggio grattugiato, mai scardinato, neanche dall’abbinamento col pomodoro sperimentato e attestatosi tra fine ‘700 e primi ‘800. Alla fine del XVI secolo comparvero i primi pastifici a conduzione familiare nella città di Gragnano, favorita da particolari condizioni climatiche, come una leggera aria umida che permetteva la lenta essiccazione dei “maccaroni”. Con la crisi del settore tessile, dalla metà del XVII secolo la maggior parte dei gragnanesi venne impiegata nell’industria pastaia per la quale furono costruiti ben 30 mulini ad acqua, i ruderi dei quali si possono ammirare nella “valle dei mulini”. La produzione della pasta, in particolare dei “maccaroni”, rese famosa nel mondo Gragnano che nell’Ottocento conobbe la sua epoca d’oro. La via Roma e la piazza Trivione, con i maccheroni appesi ad essiccare, diventarono così il centro della città. Nel Settecento i primi rudimentali macchinari per la produzione industriale resero il costo della pasta accessibile anche ai meno abbienti che fino ad allora ne erano rimasti privati. La produzione dei maccaroni aumentò ancora dopo l’Unità d’Italia. I pastifici gragnanesi si aprirono ai mercati di città come Torino, Firenze e Milano e la produzione di pasta raggiunse quindi l’apice. Gragnano addirittura ottenne l’apertura di una stazione ferroviaria per l’esportazione dei maccheroni che la collegava a Napoli e quindi all’intero Paese. Il 12 maggio 1885, all’inaugurazione erano presenti nientemeno che il re Umberto I e sua moglie, la regina Margherita di Savoia . Successivamente i pastifici si ammodernarono. Arrivò l’energia elettrica e con questa i moderni macchinari che sostituirono gli antichi torchi azionati a mano.

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Il sartù di riso

Tipico “piatto unico” estremamente nutriente, di elaborata preparazione, parte integrante dei menu delle feste delle famiglie napoletane; fa parte, come altri piatti, dell’influenza che ebbero nell’evoluzione della cucina della città di Napoli, i cosiddetti monzù (cuochi francesi che, a partire dal 700, furono al servizio delle famiglie nobili del Regno delle Due Sicilie nei palazzi della capitale partenopea); non a caso il termine deriva dal francese “sur tout” che sta per indicarne la posizione al culmine delle portate, e per la presenza, sulla sua sommità, di polpettine, piselli, rigaglie. La base del sartù di riso è il ragù napoletano, di cui si utilizza sia il condimento che alcuni pezzi di salsiccia. si preparano delle piccole polpette (della grandezza d’una nocciola) con carne, pane raffermo ammollato, uova e formaggio grattugiato; si friggono le polpette assieme alle rigaglie (fegatini di pollo) tagliate a pezzetti; si aggiungono piselli precedentemente cotti in un soffritto di cipolla; si amalgama il tutto sul fuoco, aggiungendo del ragù. A parte si lessa il riso; quando è cotto al dente si scola e si aggiunge dell’altro ragù , del parmigiano e delle uova precedentemente sbattute. Si pone il riso così preparato in una teglia grande; al centro, dopo uno strato abbondante, si pongono le polpettine, le rigaglie, i pezzi di salsiccia, i piselli, alternandoli a provola, uova sode e prosciutto cotto tagliati a dadini; si ricopre con altro riso condito, e quindi con pangrattato e riccioli di burro; si pone in forno caldo per la gratinatura. Sartù (per sei persone) 450 gr di riso 200 gr di mozzarella tagliata a dadini 150 gr di carne di manzo macinata 2 salsicce cotte e tagliate a fettine 1 pugno di rigaglie di pollo tagliate a pezzetti 1 pugno di funghi secchi rinvenuti in acqua fredda 1 pugno di mollica di pane tenuta a bagno in acqua e strizzata 8 cucchiai di parmigiano grattugiato 6 cucchiai di piselli stufati con un po’ di prosciutto ½ cucchiaino di noce moscata 3 uova 200 ml di latte 100 gr di burro sugo di pomodoro denso brodo pangrattato farina olio sale e pepe Preparate delle polpettine piccolissime amalgamando insieme la carne macinata, la mollica, un pezzetto di burro, sale e pepe. Infarinatele e passatele velocemente nell’olio ben caldo, scolatele e mettetele da parte. Fate cuocere i funghi con un pezzetto di burro e qualche cucchiaiata di acqua; in un altro tegame cuocete anche le rigaglie di pollo in una noce di burro. Trasferite in un’unica casseruola i funghi, le rigaglie, i pisellini, le salsicce, le polpettine e qualche cucchiaiata di sugo e lasciate insaporire per una decina di minuti. Versate il riso nel resto del sugo e cuocetelo a risotto, bagnandolo di tanto in tanto con il brodo. A tre quarti della cottura togliete dal fuoco, aggiungete 3 cucchiaiate di parmigiano e 2 uova battute. Mescolate bene, trasferite in un piatto e lasciate raffreddare. Preparate intanto una besciamelle con una noce di burro, mezzo cucchiaio di farina e il latte; unite un pizzico di sale, la noce moscata e un rosso d’uovo. Imburrate uno stampo da budino senza buco al centro e cospargetelo accuratamente di pangrattato. Disponete il riso sul fondo e sulle pareti (tenendone da parte 5 cucchiaiate), facendo in modo che aderisca bene ovunque. Riempite lo spazio centrale alternando strati di sugo con le polpettine, dadini di mozzarella, besciamelle, parmigiano grattugiato e fiocchetti di burro. Con il riso rimasto coprite l’ultimo strato, livellate la superficie con un coltello e spolverizzate di pangrattato e burro. Mettete in forno a calore moderato per una trentina di minuti o finché si sarà formata una crosticina dorata. Togliete dal forno e aspettate una decina di minuti prima di capovolgere il sartù, dopo aver passato delicatamente la lama di un coltello tra lo stampo ed il riso. Servite ben caldo.

I Tipici

Il salame d’oca di Mortara IGP

Prodotto d’eccellenza della tradizione gastronomica della Lomellina, questa specialità trae la propria origine dalla cucina  ebraica,  infatti in origine non prevedeva parti di maiale. Prodotto tipico della provincia di Pavia, il Salame d’oca di Mortara IGP è ottenuto con una ricetta non ancora uniforme, perché spesso i produttori custodiscono gelosamente la proporzione degli ingredienti utilizzati. Regola di base, però, è l’uso di budelli di pelle d’oca per insaccare il prodotto.Il Consorzio di Tutela del Salame d’oca che ha sede a Mortara, infatti, vieta l’uso di budelli artificiali. Inoltre, ogni salame dev’essere cucito e legato a mano.Di forma cilindrica e allungata, con una lunghezza di 30 – 40 centimetri e un diametro di 7-8 centimetri, il Salame d’oca si presenta alla vista di un bel colore rosso porpora. Il peso varia tra i 600 e i 900 grammi.Il Salame d’oca è tipico della Lomellina, in provincia di Pavia, zona in cui è stato ideato il singolare accostamento tra palmipedi e suini grazie alla creatività dei macellai e alle comunità ebraiche insediatesi nella stessa zona sin XVII dal secolo.Benché al principio l’oca fosse considerata solo un surrogato del maiale, le successive modalità di lavorazione delle carni hanno ispirato i produttori sino a raggiungere salumi di qualità eccellente, caratterizzati da un abbinamento unico al mondo. Fin dal Medioevo, la Lomellina è una zona dedita all’allevamento dell’oca. Nelle sue terre basse e acquitrinose, questo animale di corte offriva alle famiglie diverse risorse: carne, pelle, piume, grasso, fegato e frattaglie. Come per il maiale, la necessità di conservarne le carni ha spinto gli allevatori alla produzione di salami e prosciutti d’oca, ancor oggi legati a una lavorazione artigianale se non addirittura familiare. È ottenuto dalla lavorazione di carne magra d’oca, cui si aggiungono carne e grasso suino tritati, di solito la spalla come carne magra e la pancetta suina come parte grassa. Dopo esser stato tritato, all’impasto si aggiungono sale, pepe e aromi che variano a seconda del produttore.L’insacco avviene utilizzando la pelle dell’oca in precedenza tagliata e messa sotto sale; segue la stagionatura che dura intorno ai tre mesi. Il Salame d’oca crudo ha un sapore dolce e delicato, oltre a un piacevole sentore di viola.Ottimo come antipasto o spuntino specialmente se consumato secondo la tradizione lombarda con mostarda e salse agrodolci, il Salame d’oca può essere un eccellente secondo se accompagnato da verdure alla griglia o al vapore.Data la delicatezza delle carni se ne consiglia un abbinamento con un vino non troppo deciso, preferibilmente un bianco morbido e aromatico.  fonte buonalombardia

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Bigoli con sardelle

Nel dialetto il termine bigolo significa cavicchio, paletto, ed è spesso usato come metafora sessuale e, conseguentemente, come epiteto offensivo rivolto a persone poco sveglie.In cucina, i bigoli sono una sorta di grossi spaghetti fatti in casa con pasta all’uovo lavorata al torchio, tipici della cucina mantovana, bresciana e veneta.Erano in passato un piatto tra i più apprezzati, tanto che andare a bigoli è locuzione entrata nell’uso per andare a pranzo.La cucina tradizionale lombarda accoglie pochissime formulazioni con pesce di mare fresco, per la difficoltà di approvvigionamento della materia prima, in passato molto avvertita nelle zone più interne o lontane dai fiumi navigabili. Salvo le anguille che, pur essendo pesci d’acqua salata risalgono la corrente dei fiumi, i piatti con pesce di mare si contano sulle dita delle mani e provengono quasi tutti dalla tradizione borghese ottocentesca: il merluzzo o le aringhe con la salsa bianca, la frittura di sardelle, la sogliola in insalata o il risotto alla certosina, in cui taluni fanno entrare la sogliola al posto del persico. Era più frequente il consumo del pesce di mare conservato sotto sale.I venditori ambulanti, di pesce salato, provenienti soprattutto dalle valli sud-occidentali del Piemonte, raggiungevano anche i paesi più isolati dei rilievi prealpini. Il merluzzo salato (o baccalà), il merluzzo essiccato senza sale (stoccafisso), le sardelle, le alici e le aringhe erano, tra i pesci in barile, i più diffusi, tanto da generare il modello locale degli agoni di lago seccati e salati (missoltini). Proverbiale, nella descrizione di un panorama di miseria di fame, era la polenta e tucalà, la fetta di polenta strofinata sull’aringa posta al centro della tavola. Col baccalà si preparava lo sformato alla certosina, il baccalà in umido o quello con le verze. Le aringhe si arrostivano sulla brace, una volta rinvenute in acqua tiepida; le sarde e le alici entravano a insaporire molti piatti, alla stregua degli attuali dadi di glutammato. Preparazione per 4 porzioni:BIGOLI: 400 g- SARDELLE : 200 g -OLIO DI OLIVA:  50 g -AGLIO: uno spicchio SALE: q. b.     Pulire i pesci dal sale,  lavarli accuratamente e asciugarli;     mettere sul fuoco la pentola con abbondante acqua salata e non appena bolle buttarvi la pasta;    mentre la pasta cuoce, mettere sul fuoco un tegame con l’olio e lo spicchio d’aglio leggermente schiacciato e far rosolare a fiamma dolcissima;    togliere l’aglio, porre nel tegame le sardelle, spappolandole con la forchetta e portarle a cottura senza mai far friggere l’olio;     scolare i bigoli al dente e condirli con il sugo.    Per la pasta: Impastare 600 g di farina di grano saraceno (o di farina integrale) con due uova intere, 50 g di burro ammorbidito, 200 ml di latte e un pizzico di sale;lavorare l’impasto finché non sia ben liscio e omogeneo e farlo riposare per almeno mezzora; passare l’impasto al torchio e disporre i bigoli, ben allargati, su un vassoio ricoperto con una salvietta infarinata, sulla quale dovranno asciugarsi per 24 ore.     Note: bigoli fatti in casaOggi i bigoli si possono acquistare già pronti nelle zone che ne vantano la tradizione.Chi avesse a disposizione un torchio a piastra con fori larghi e volesse cimentarsi a farli in casa, può utilizzare le seguenti dosi, avendo l’avvertenza di prepararli il giorno precedente alla consumazione. Varianti:La pasta può anche essere di farina bianca.Alcune formulazioni utilizzano quattro uova ed escludono altri liquidi leganti. Alle sardelle si possono sostituire acciughe, sia fresche che dissalate.In quest’ultimo caso, invece dell’aglio, si usa un soffritto di cipolla.

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I salumi: dagli Etruschi al Prosciutto di Parma

Malgrado una storia della salumeria, italiana e mondiale, ancora non sia stata scritta, molti sono gli elementi che inducono ad attribuirle un’origine prevalentemente mediterranea e in particolare italiana.In primo luogo vi sono il clima e un territorio dove vi è ampia disponibilità di sale marino o d’affioramento. In secondo luogo vi è stato il trasferimento alla carne, soprattutto di maiale, delle tecnologie prima di salatura e poi fermentative, sviluppate per altri alimenti. L’applicazione alla carne dell’essiccamento e della salagione ha assunto e poi mantenuto una sua specificità.Importante per la sua affermazione è stato inoltre lo sviluppo dell’impero romano e del commercio degli alimenti conservati, necessari al sostentamento sia delle popolazioni urbane (Roma sopra le altre città) sia degli eserciti romani, utilizzando una vasta, capillare ed efficiente rete viaria.Sulle rotte del Mare Nostrum e sulle vie consolari, accanto alle anfore contenenti vino, olio, frumento e fichi secchi, vengono trasportati carni secche (siccamen), prosciutti (perna), abbondante lardum, sulcia e insicia, salumi tra i quali sono particolarmente noti quelli della Lucania (lucanica). L’USO ALIMENTARE DEL MAIALE NELL’ANTICHITA’Il maiale, come animale selvatico (cinghiale) o semiselvatico o domestico, è sempre stato impiegato nell’alimentazione europea, dove non risultano esserci i divieti o tabù che invece riguardano altre aree culturali, tra le quali sono da ricordare quella egiziana per taluni periodi storici, ebrea e musulmana.Reperti ossei preistorici, davanti alle grotte o nei primi insediamenti umani costituiscono una documentazione precisa dell’uso alimentare del maiale, che continua presso gli etruschi, i galli e soprattutto i romani della pianura padana.Per quanto riguarda la nascita della salumeria parmigiana, importante è stato il ruolo degli etruschi, che secondo le fonti a disposizioni degli studiosi già nel V secolo a.C. trasformano le cosce di maiale in prosciutti e protoprosciutti, che poi vengono commerciati. In epoca romana dalla Gallia cispadana, partono per Roma grandi quantità di cosce di maiale salate.Sono note descrizioni precise delle tecnologie di produzione delle carni salate di maiale, ma di quali prosciutti (perna) e salumi (lucaniche) si trattava?Molti sono gli autori che attestano come presso i romani si operasse la trasformazione delle carni suine in salumi. Polibio, M. Porzio Catone, Ovidio, il celebre gastronomo Apicio e Catone il Censore sono solo alcuni tra coloro che citano nei loro scritti, prosciutto, mortadella, prodotti affumicati. I SALUMI NEL MEDIOEVO Nel medioevo è diffusa l’abitudine di tagliare il maiale a metà in senso longitudinale, costituendo due mezene, da cui il termine ancora diffuso di mezzena, che vengono conservate tramite salagione.In Francia le mezzene sono denominate baccones da cui il bacon inglese. Quando il maiale non è conservato intero, si salano le parti più pregiate: coscia o prosciutto e gambuccio, scamarita (parte della schiena vicina alla coscia), spalla.Le parti meno pregiate non vengono salate a causa dell’alto prezzo del sale.La presenza di fonti di acque salse nella pianura padana favorisce naturalmente in quest’area lo sviluppo della produzione di carni salate.Numerose sono le testimonianze iconografiche dell’uso padano di conservare il maiale sotto forma di insaccati.Tra le spezie di cui è documentato l’uso nei secoli passati, e fin dal medioevo, si possono ricordare il pepe ed altre spezie d’origine orientale: cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zenzero, comino, zafferano; oppure le erbe aromatiche prodotte negli orti casalinghi: timo, maggiorana, salvia, anice, rosmarino, prezzemolo, coriandolo, ma soprattutto l’aglio.Il maiale é inoltre una preziosa fonte di grasso. Il lardo fin dal periodo longobardo era conservato tramite salatura; i muratori longobardi ricevono una quota fissa di lardo di circa cinque chilogrammi per il loro sostentamento prima di iniziare il lavoro stagionale TRA MEDIOEVO ED ETA’ MODERNA: LE CORPORAZIONI Con la rivoluzione agraria dell’anno Mille, la pianura padana è disboscata e le acque sono regolate; si riduco o scompaiono gran parte degli animali che sfruttano l’incolto, non il maiale, che anzi trae vantaggio dal nuovo assetto.Tra i XII ed il XVII secolo si osserva un forte sviluppo dei mestieri legati alla trasformazione delle carni di maiale e nello stesso periodo compare la figura del norcino, che crea nuovi prodotti salumieri.Queste figure professionali si organizzano in corporazioni o confraternite.A Bologna sorge la Corporazione dei Salaroli, a Firenze, all’epoca dei Medici, la Compagnia dei Facchini di San Giovanni Decollato della Nazione Norcina.Papa Paolo V, con la bolla Pastoris aeterni (1615), riconosce la confraternita norcina dedicata ai santi Benedetto e Scolastica che, otto anni più tardi, il suo successore Gregorio XV eleva ad arciconfraternita alla quale, nel 1667, aderisce anche l’Università dei Pizzicaroli Norcini e Casciani e dei Medici Empirici Norcini.Bandi e statuti prescrivono norme precise per chi voglia esercitare l’arte di lardarolo e salcizzaro. Così, nel 1547, dopo essersi costituiti, non senza difficoltà, in corporazione autonoma da quella dei beccai (macellai), i salcizzari modenesi stabiliscono che «non si lascia fare salcizza alcuno che non sia stato gargione di salcizzaro per anni tre continui».Ancora, il Bando sopra le mortadelle stabilisce che non si possa «fabbricare mortadelle e salumi d’altra sorta di carne, che di porcina, e a chi ne avesse fabbricato, comprato od introdotto d’altra carne, benché minima di essa, vuole Sua Eminenza che in termine di otto giorni dalla pubblicazione del presente Bando debba denonciare». Perfetta qualità della carne, dunque, e provata competenza del norcino sono i requisiti richiesti per esercitare la professione.

Il cibo nel tempo, nell'Antica Roma

Lumache ingrassate con latte

(Cochleas lacte pastas) Marco Gavio Apicio Prendere delle lumache di media grandezza, pulirle accuratamente, levare loro le membrane in modo che possano uscire e metterle in un contenitore in cui sia stato precedentemente versato del latte e del sale. Lasciare che spurghino per qualche giorno e una volta diventate talmente grosse da non poter più rientrare nel guscio, friggerle in olio ben caldo. Disporle quindi in un piatto da portata e servire in tavola dopo averle irrorate con del vino e qualche goccia di garum. (Apicio, De re coquinaria., libro VII)

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