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..degli alimenti, Storie

La lumaca

Compresa nel novero dei prodotti selvatici, la chiocciola è certamente uno degli alimenti più antichi della storia umana. La sua innocuità e la proverbiale lentezza, è evidente, furono un handicap per l’animale ed un invito a pranzo per l’uomo. I nostri lontani antenati, tuttavia, non dimenticarono la lumaca neanche quando – attrezzatisi per la caccia – presero a dedicare i loro sforzi principalmente ad animali di maggior taglia. Come nota Livio Cerini, «gli uomini han sempre mangiato le lumache, che tra l’altro erano più facili da catturare di un mammouth o anche di un semplice coniglio selvatico». Che ne abbiano consumato gran quantità, del resto, è un fatto testimoniato dai ritrovamenti, nelle caverne preistoriche, d’ammassi di gusci «pulitissimi e muti testimoni di un primordiale hors-d’oeuvre caldo». Da allora non s’è mai smesso di mangiar lumache, nonostante le loro piuttosto alterne vicende come genere gastronomico: sono state considerate ora pietanza di rara prelibatezza ed ora piatto da bifolchi, ora alimento impuro (così le giudicava Mosè nominandole nella Bibbia) ed ora quale ingrediente riservato a medici e ad ammalati, ora vivanda popolare e perciò anonima ed ora boccone da signori e quindi cibo “colto” degno d’esser messo per iscritto, poi si saprà (con Rabelais) che «erano cibi per tutti». Per dirlo in breve, insomma, la chiocciola ha sempre avuto estimatori: anche nei periodi più bui della sua storia, vale a dire nei secoli XVII e XVIII. Prelibate per i Greci, le chiocciole erano assai apprezzate anche dai Romani. Quattro ricette sono presenti nel celebre “De Re Coquinaria” di Apicio, che spurgava le lumache nel latte per diversi giorni prima della cottura e poi – quando si erano gonfiate tanto da non poter rientrare nel guscio – le friggeva o le arrostiva servendole con varie salse (prima fra tutte l’onnipresente garum). All’epoca delle guerre civili tra Cesare e Pompeo, in ogni modo, quelle raccolte negli orti o nelle campagne del suburbio non erano più sufficienti a soddisfare le richieste. Plinio il Giovane assicura, nella sua “Naturalis Historia”, che i ricchi del tempo ne mangiavano molte provenienti da allevamenti in cui le bestiole venivano ingrassate con farine di cereali ed erbe aromatiche. Pare che l’inventore di tali allevamenti sia stato (nel tal Fulvio Lippino, che importava chiocciole da tutte le parti del mondo allora conosciuto. Per soddisfare i suoi ricchi clienti creò un servizio di traghetti, che trasportavano regolarmente a Roma le lumache fresche dalla Sardegna, dalla Sicilia, da Capri, dalle coste spagnole e nord-africane. Nella sua proprietà di Tarquinia Lippino ne aveva numerosi vivai, distinti secondo le diverse specie: in questo modo poteva tener separatamente le bianche «che nascono nella campagna di Rieti», le illiriche «caratterizzate da una grandezza straordinaria», le africane «che sono molto feconde», le non meglio precisate soletane «ricche di molta fama». L’idea fu ben presto copiata, e per poterne disporre a piacimento si allevavano le lumache in recinti vicino a casa, chiamati «cocleari». «Caput mundi» anche in questo, Roma insegnò alle popolazioni delle Gallie come degustare le chiocciole. I francesi, come si sa, non hanno dimenticato la lezione: ancor oggi, eccellono nell’arte di mangiarle in modo divino. Nei secoli dell’Alto Medioevo gli allevamenti scomparvero, ma il consumo di chiocciole era in ogni caso comune. Dal ‘300 fino al Rinascimento, anche se la loro popolarità fu sempre discussa, non scomparvero mai del tutto dai ricettari dei maestri gastronomi della scuola italiana. E poi, pur essendo palesemente animale del tutto terrestre, vennero rivalutate come “carne di magro” per il periodo quaresimale. Ideali in tempo di penitenza, dunque, da quando (si narra) un Papa che ne aveva voglia respinse le scandalizzate obiezioni del suo cuoco e confermò la richiesta di lumache semplicemente decretando «Estote pisces in aeternum»… Ampiamente attestato è che in Francia, nel XVI secolo, pur non raccogliendo l’unanime consenso le lumache comparivano sulle migliori tavole. Nel secolo successivo e più avanti, però, a Parigi si generalizza il rifiuto della lumaca da parte di gastronomi e libri di cucina. A tratti, la chiocciola subisce il disprezzo o addirittura, contro ogni evidenza, è considerata immangiabile. Qualche esempio? Nella sua “Enciclopedia” (1765) Diderot riferisce che «solo i contadini mangiano le lumache negli stufati e nelle minestre», nel 1809 l’autore di un manuale di cucina (“Cours de gastronomie”) si domanda «come può piacere questo rettile disgustoso?» ed un altro dice della chiocciola che è «buona solo per la gente affamata». A parte quel «solo», c’è da ricordare che pochi anni dopo quest’ultima affermazione si dimostrò sensata: da sempre una manna durante le spaventose carestie che periodicamente colpivano l’intera Europa, le lumache furono mangiate su vasta scala durante quella del 1816… e la loro accettazione, nella cucina borghese, non diminuì più. L’Ottocento, comunque, è il secolo in cui – provenienti direttamente dalla cucina popolare – le lumache ricompaiono con onore anche sulle tavole altolocate che fino ad allora le avevano disdegnate. Nell’alta cucina francese tornano in auge a partire dal 22 maggio 1814, complice una scommessa: nel corso di un memorabile banchetto il principe de Tayllerand, il cui cuoco Anacraonte conosceva venti diversi modi di prepararle, ne offrì allo zar Alessandro I. Qualche anno più tardi la preparazione “alla bourguignonne”, definita «succulenta» nella riedizione del 1840 del famoso “Cuisinier des cuisiniers” di Jourdain Lecointe, era ormai codificata. La lumaca, finalmente e definitivamente, troneggiava in cucina su un aristocratico piedistallo. Senza paura d’esser contraddetto, nel 1870 J.-P.-A. de la Porte poteva scrivere (“Hygièn de la table”) che «[…] La lumaca fa la felicità di un gran numero di buongustai nelle stagioni d’autunno e inverno. […]». Affermazione non meno vera ai giorni nostri…

Il cibo nel tempo, nel Medioevo

Pesce fritto in saor.. ricettario arabo (1226)

La ricetta è stata scritta da Muhammad bin al-Hasan bin Muhammad bin al-Karīm al-Baghdadi, noto come al-Baghdadi, nel 1226 ovviamente a Baghdad, allora una delle città più ricche, colte e abitate al mondo. Di lui si sa molto poco, il suo manoscritto,dal titolo Kitab al-Tabīh (Il libro dei piatti), è sopravvissuto in un’unica copia Pulire le sarde privandole delle lische,infarinarle e farle friggere in olio bollente. Sgocciolarle e adagiarle su carta assorbente.Affettare sottilmente le cipolle e rosolarle nell’olio d’oliva a fuoco moderato per appassirle senza colorirle. Bagnare le cipolle con aceto in cui e’ stato sciolto lo zafferano, aggiungere il timo, il sale e il pepe in grani. Adagiare le sarde a strati in un recipiente di coccio, cospargerle di foglie di sedano e condirle con la salsa di cipolle e aceto. Tenere al fresco per 24 ore e servire. Per 4 persone: 6 etti di sarde, farina, olio di semi, 4 cipolle rosse, 3 dl di aceto, 1 bustina di zafferano, una manciata di foglie di sedano, olio extravergine d’oliva, sale e pepe

Il cibo nel tempo, nell'Antica Roma

Le lasagne di Apicio

Nel IV Libro del De re coquinaria di Apicio ritroviamo le lagane cucinate in modo da trasformarle quasi in un emblema del “mangiar da ricchi”. Sono infatti composte alternando strati di svariate polpe di carne e pesce, sminuzzate, bollite e insaporite con ogni ben di Dio, con strati di sfoglia: «quotquot posueris, tot trullas impensae desuper adficies» (quante sfoglie porrai, altrettanti ramaioli gettavi sopra di condimento). Infine «unum vero laganum fistula percuties, et superimpones» (una di quelle sfoglie spianala bene col mattarello e stendila sopra come coperta). Il testo apiciano si dilunga nella descrizione della preparazione degli impasti della carne e degli intingoli, ma non dice nulla a proposito di come si doveva procedere nella confezione delle lagane: questo dimostra indirettamente che all’epoca a nessuno era sconosciuto questo tipo di pasta né come si faceva. Sempre nel IV libro della sua opera Apicio ci fornisce un’informazione molto importante riguardo la pasta e in particolare riguardo la pasta secca. Egli suggerisce infatti di usare, a dire la verità come addensante, specie per il brodo, le tractae: «cum furberit, tractam confriges, obligas», quando bolle rompi una sfoglia di pasta e con questa addensa. E, nel Libro VIII, in una delle sue complicate ricette per stracotti, si accenna alle tractae, da sminuzzare nel sugo per infittirlo (“… tractam siccatam confringes et partitibus caccabo permisces”). Le tractae erano ottenute lavorando gli impasti di farina in modo che risultassero ben schiacciati e pressati e così lievitassero meglio. Il fatto poi che fosse una sfoglia da spezzare, non lascia dubbi: si tratta di una sfoglia secca, e perciò frantumabile. Ma si può fare anche un’altra deduzione e cioè che si trattasse di una sfoglia di semola di grano duro, poiché il termine tracta indica un grande sforzo di mani, sforzo che sarebbe stato certamente minore se si fosse impastato con farina di grano tenero. E forse queste tractae, usate da Apicio in modo per così dire indiretto, cioè in pietanze rese nobili e ricche da altri ingredienti, altro non sono che una versione povera delle lasagne, o meglio, di quelle stesse lagane che Orazio mangiava con porri e ceci. In: APICIO, De re coquinaria, Libro IV, Libro IX. E in: APICIO C., Delle vivande e condimenti, ovvero dell’Arte della cucina. Venezia (I), 1852. da: MONDELLI Mariaelena, Antico e vero come la pasta. Ricerca ragionata delle fonti storiche e documentali. Parma (I), 1998, p. 10; PORTESI Giuseppe, L’industria della pasta alimentare. Roma (I), Molini d’Italia, 1957, p. 12.

Vini

Il Bianco di Pitigliano DOC

Pitigliano è una splendida cittàdina medievale nella Maremma Toscana, arroccata in cima ad una cresta di tufo con un centro storico perfettamente conservato. Il bel borgo costruito sulla rupe tufacea, nasconde nel sottosuolo una seconda città: cunicoli, pozzi, colombari e cantineProtagonisti assoluti nella realtà dell’area del Tufo, i prodotti tipici del territorio dove un ruolo di primo piano è ovviamente riservato alla viticoltura, alla quale sono legati secoli di forti tradizioni e la produzione di vini DOC famosi in tutto il mondo In quest’area la coltivazione della vite risale al periodo etrusco e greco. La dominazione romana migliorò le tecniche di vinificazione, insuperate fino al Medioevo. La tradizione ha poi continuato a trasmettersi nei secoli, attraverso le vicissitudini degli Aldobrandeschi e degli Orsini, e tutti coloro che sostavano per traffici e azioni militari apprezzavano questi bianchi abboccati, conservati nelle profonde e fredde grotte di tufo. Le colline ben ventilate, protette dai venti freddi del nord e aperte alle brezze marine e i terreni tufacei ricchi di potassio contribuiscono alle particolari caratteristiche organolettiche di questo vino. Da anni si produce anche un Bianco di Pitigliano preparato secondo le regole della religione ebraica, che qui vanta una presenza millenaria. L’evoluzione della viticoltura locale ha valorizzato il Bianco di Pitigliano, uno dei primi DOC, un vino fresco e vivace, dal profumo delicato, che sempre si presta ad accompagnare i piatti tipici maremmani antipasti misti di mare, nonché zuppe di ortaggi, verdure in pastella e formaggi a pasta molle tipici del territorio di produzione. Perfetto con carni bianche cucinate in modo semplice. Tipologie: Bianco di Pitigliano, Bianco di Pitigliano Superiore, Bianco di Pitigliano Spumante, Bianco di Pitigliano Vin Santo. Vitigni: Trebbiano toscano 40-100%; Greco, Malvasia bianca lunga, Verdello, Grechetto, Ansonica, Chardonnay, Sauvignon, Viognier, Pinot bianco e Riesling italico 0-60%; Altri vitigni a bacca bianca 0-15%. Descrizione: Colore giallo paglierino più o meno intenso (Bianco di Pitigliano anche Superiore), paglierino con riflessi verdolini (Spumante), dal paglierino all’ambrato al bruno (Vin Santo). Odore fine e delicato (Bianco di Pitigliano anche Superiore e Spumante), etereo, caldo, caratteristico (Vin Santo). Sapore asciutto, fresco, talvolta vivace, con fondo leggermente amarognolo, di medio corpo (Bianco di Pitigliano) e morbido (Superiore), da dosaggio zero a dry, vivace, acidulo, con fondo leggermente amarognolo (Spumante), da secco a dolce, armonico, vellutato, con più pronunciata rotondità per il tipo amabile (Vin Santo). Titolo alcol. Min. 11% (Bianco di Pitigliano), 12% (Superiore), 11,5% (Spumante), 16% (Vin Santo). Disciplinare: approvato DOC con DPR 28.03.1966 (G.U. 326 – 30.05.1966)

Vini

Vernaccia di San Gimignano DOCG

Molteplici testimonianze attestano nel tempo a partire dal sec. XIII l’origine del prodotto a San Gimignano. Al riguardo ricordiamo una delibera del Consiglio della Comunità del 1228 che autorizza il rimborso di un pranzo effettuato dal Podestà Gregorio e costituito da “uno chapone, una gallina et quatuor fercolis camium porchi et in ovis et pipere et croco”. La qualità e rinomanza che fin dal 1200 ebbe lo zafferano di San Gimignano è documentata non solo da una significativa esportazione del prodotto verso altre piazze italiane (Pisa 1238, Genova 1291), ma anche dalla inedita direzione assunta dalla corrente di traffico verso i paesi orientali e africani. I guadagni che derivavano dal commercio dello zafferano erano talmente elevati da fare la fortuna di non poche casate, alcune delle quali – come si ricava da numerose fonti – decisero di impiegarli anche nella costruzione delle famose torri, tuttora motivo di orgoglio della città. disciplinare GUCE L 33 del 05.02.05

Vini

Est! Est!! Est!!! di Montefiascone DOC

Il primo censimento al quale si può fare riferimento è quello effettuato nello Stato Ecclesiastico nel 1656. Nel volume «Vallerano e le confraternite» scritto da Mons. Manfredo Manfredi e pubblicato nel 1996 è indicato che il maggiore sostentamento delle locali confraternite era rappresentato dalla vendita delle castagne. Nella rivista Geografica Italiana 87 (1980) è indicato che la coltura del castagno esisteva già nell’anno 1500. Nel 1584 il Principe Farnese autorizzò l’esportazione delle castagne ai paesi vicini solo verso quelli che potevano fornire in contropartita cereali. Negli atti del Convegno internazionale tenuto a Spoleto nel 1993 viene indicata la piazza di Vallerano quale centro più importante del Viterbese sia per la produzione che per la commercializzazione di questo prodotto. Il legame tra Vallerano e la castagna è altresì riscontrabile dalle grotte tufacee con vasche per la cura a freddo delle castagne ai fini conservativi del prodotto Viti selvatiche, nella zona dell’Est! Est!! Est!!! sono documentate sin dal X-IX sec. a. C.. La vocazione vitivinicola di Montefiascone traspare già dal nome della città e dal suo stemma. L’Est Est Est lega il suo nome alla leggenda di Johannes Defuk, personaggio di rango, giunto nel 1111 in Italia al seguito dell’Imperatore Enrico V. Questi, conservando una grande predilezione per il buon vino, si narra che abbia invitato il suo servitore Martino a precederlo, nel viaggio verso Roma, e a selezionare per lui i vini delle migliori cantine indicando la presenza di un buon vino con un “Est” sulla porta delle osterie. Defuk scendeva da cavallo e gustava il vino ogni volta che si imbatteva in questo segno. Giunto a Montefiascone incontra un’osteria segnata con tre Est, segno di eccellenza. Beve per due giorni, decide di abbandonare il corteo imperiale e di trasferirsi a Montefiascone fino alla morte, avvenuta nel 1113. La DOC “Est! Est!! Est!!! di Montefiascone”, anche nella tipologia Classico e Spumante è riservata ai vini bianchi ottenuti dai seguenti vitigni: Trebbiano Toscano, detto Procanico (dal 50 al 65%); Malvasia bianca lunga e/o del Lazio (dal 10 al 20%); Trebbiano Giallo, detto Rossetto (dal 25 al 40%). E’ un vino, anche per la tipologia Classico, dal colore paglierino più o meno intenso; profumo fine, caratteristico, leggermente aromatico; sapore secco o abboccato o amabile, sapido, armonico, persistente con leggera vena amarognola. Gradazione minima: 10,5° e 11,5° per il Classico. Lo Spumante ha spuma fine, persistente; colore giallo paglierino tenue; profumo gradevole con caratteristiche di fruttato delicato; sapore secco, fruttato, lievemente aromatico. Gradazione minima: 11°. L’Est! Est!! Est!!! si accompagna bene con antipasti magri e delicati, minestre a base di pesce e con i pesci di acqua dolce, come la “minestra di tinca coi tagliolini”, la “tinca con i piselli”, la zuppa col pesce di lago denominata “sbroscia”. Il tipo Spumante può essere bevuto con i dolci a base di ricotta (crostata con la ricotta, ravioli lessi con la ricotta, ciambellone con la ricotta) e con i “tozzetti di Viterbo”.

Il cibo nel tempo, nell'Antica Roma

La sarda farcita di Apicio

Diliscare la sarda, e tritare puleggio (mentuccia), comino, grani di pepe, menta, noci, miele. Riempire la sarda e cucirla. Avvolgerla nella carta e cuocerla sotto coperchio a piccolo fuoco. Condire con olio, vino dolce cotto e salsa di pesce. (A. IX, X, 1). Questa ricetta ricorda quella delle sarde ripiene alla palermitana. Le sarde diliscate vanno riempite con un trito di pinoli, uva sultanina, acciughe, pepe mescolato a del pangrattato e ad un po’ di zucchero. Allineate in una teglia vanno spruzzate di olio e passate in forno. fonte beniculturali.it

Educhiamoci

I colori della salute

Non è importante privilegiare solo la quantità ma anche la varietà di frutta e ortaggi. Negli ultimi anni, diversi studi hanno infatti dimostrato che le proprietà salutistiche della frutta e della verdura sono dovute anche alla abbondante presenza di alcune speciali sostanze (Polifenoli e Flavonoidi) che conferiscono alla frutta e alla verdura colori vivaci e invitanti. “Nutritevi dei colori della vita” è il titolo di una campagna di promozione e di informazione, finanziata con il contributo dell’Unione europea e dello Stato italiano, che consiglia come e perché consumare più frutta e verdura fresche a tutto vantaggio del nostro benessere e della nostra salute. Le diverse colorazioni possono essere raggruppate in 5 categorie (rosso, verde, bianco, giallo/arancio, blu/viola) ad ognuno dei quali corrispondono sostanze specifiche ad azione protettiva, per cui solo variando nell’arco della giornata alimentare il consumo di frutta e verdura potremo coprire tutti fabbisogni dell’organismo. Bianco Aglio, Cavolfiore, Cipolla, Finocchio, Funghi, Mela, Pera, Porri, Sedano Proprietà: Rinforza il tessuto osseo e i polmoni, combatte tumori e patologie cardiovascolari. Elementi contenuti: Fibre, sali minerali come il potassio e vitamina C. Curiosità: L’aglio è un toccasana, si sa. Gli Egizi lo davano agli schiavi durante la costruzione delle piramidi per renderli resistenti e combattere le infezioni intestinali. Erodoto riferisce che, tra le spese della piramide di Cheope, c’è anche quella per l’aglio. Anche la cipolla era famosa nell’antico Egitto perché usata per l’imbalsamazione. Per i Greci invece era cibo da militari al punto che faceva parte del salario dei soldati. Sempre i Greci utilizzavano le foglie di sedano per incoronare i vincitori di alcune gare sportive, mentre il finocchio, nativo del Mediterraneo, nell’antichità insaporiva i cibi o ne copriva gli eventuali difetti. Da qui l’espressione “infinocchiare”, metafora dell’imbroglio. Blu-viola Fichi, Frutti di bosco, Melanzane, Prugne, Radicchio, Uva nera Proprietà: Colore nemico dei tumori e delle patologie cardiovascolari e amico della vista, dei capillari sanguigni e di una corretta funzione urinaria. Elementi contenuti: Beta-carotene (precursore della vit. A che interviene nella crescita, nella riproduzione e nel mantenimento dei tessuti, nella funzione immunitaria e nel meccanismo della visione), vitamina C Curiosità: L’arrivo della melanzana in Italia risale al XVIII secolo, ma veniva coltivata da oltre 4.000 anni in India. Credenze popolari le hanno attribuito difetti e virtù. Si pensava che mangiarne tante portasse alla pazzia (da cui il nome “mela insana”) o, invece, che avesse poteri afrodisiaci e magici. Giallo-arancio Albicocca, Arancia, Carota, Clementina, Kaki, Limone, Mandarino, Melone, Nespola, Nettarina, Peperone, Pesca, Pompelmo, Zucca Proprietà:Combatte infatti il rischio di sviluppare tumori e patologie cardiovascolari, potenzia la vista e previene l’invecchiamento cellulare. Elementi contenuti: Beta-carotene e vitamina C Curiosità: Il termine arancia proviene, attraverso l’arabo “narangi”, dal sanscrito “narag’a” che significa “frutto favorito dagli elefanti”. Al sapore di arancio anche una leggenda siciliana: una fanciulla poverissima, non avendo abiti e gioielli da indossare per le sue nozze, si adornò i capelli e i vestiti con i profumatissimi fiori d’arancio. Da qui la tradizione tuttora viva. Dalla Sicilia andiamo in Persia? Non proprio, visto che la pesca arriva in realtà dalla Cina dov’era coltivata 3000 anni fa e non dalla Persia, come suggerirebbe il nome “mela persica”. Rosso Anguria, Arancia rossa, Barbabietola rossa, Ciliegia, Fragola, Pomodoro, Ravanello, Rapa rossa Proprietà: Riduce il rischio di sviluppare tumori e patologie cardiovascolari e protegge il tessuto epiteliale, stimola le difese immunitarie e la cicatrizzazione delle ferite, incrementa l’assorbimento del ferro contenuto nei vegetali. Elementi contenuti: Vitamina C Curiosità: Nella cultura popolare la polpa di fragola lenisce la pelle scottata dal sole. Partita della Cina, l’arancia rossa arrivò in Italia nel 1500, anche se pare fosse già nota ai Romani nel I sec. d.C. Verde Agretti, Asparagi, Basilico, Bieta, Broccoletti, Broccoli, Carciofo, Cavolo broccolo, Cavolo cappuccio, Cetriolo, Cicoria, Cime di rapa, Indivia, Kiwi, Lattuga, Prezzemolo, Rughetta, Spinaci, Uva, Zucchina Proprietà: Previene molti tipi di tumore e patologie coronariche, protegge la vista e lo sviluppo delle cellule epiteliali, difende dall’invecchiamento. Elementi contenuti: Magnesio (stimola assorbimento del calcio, del fosforo, del sodio e del potassio), carotenoide, acido folico (aiuta la chiusura del canale vertebrale dei neonati durante la gravidanza), vitamina C Curiosità: Nell’antichità prezzemolo e basilico non avevano esattamente il compito di insaporire le pietanze: gli antichi Greci usavano il primo per decorare le corone dei vincitori dei giochi Nemei, mentre i romani usavano il basilico per combattere gli attacchi del basilisco, un leggendario quanto terribile drago.

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I ceci e la farinata

La pianta del cece proviene dall’Oriente ed è coltivata da tempo immemore in tutti i paesi del bacino mediterraneo Gli antichi Romani li conoscevano bene: come altri legumi furono usati per dare un nome ad alcune famiglie (Lentuli, Pisoni, da “lenticchie”, “piselli”), anche i ceci (ciceri) contribuirono a dare il nome al celebre oratore Cicerone, per via del neo che aveva sul naso.Risulta essere stato uno dei primi alimenti dell’uomo sin dal 5000 a. C. Il cece è anche legato a un episodio sanguinoso avvenuto durante i Vespri siciliani: la rivolta di Palermo del 1282, che vide la fine del dominio angioino in Sicilia, consacrò per breve tempo la parola ciceri (ceci) come discriminante tra la vita e la morte. I francesi, infatti, erano incapaci di pronunciarla senza accentare la i finale e i siciliani, ansiosi di sterminarli, costringevano le persone sospettate di essere francesi travestiti a pronunciarla: chi diceva “cicerì” veniva subito ucciso.Ne esistono principalmente due varietà: una mediterranea più grande e tendente al giallo, ed una orientale, più piccola e rossastra. La farinata di ceci (detta anche Torta di Ceci) è una torta salata molto bassa, preparata con farina di ceci, acqua, sale e olio di oliva. Si cuoce in forno a legna, in teglia, e assume con la cottura un vivace colore dorato. Ha radici assai antiche: diverse ricette latine e greche riportano sformati di purea di legumi, cotti in forno. Una leggenda racconta che sia nato per casualità nel 1284, quando Genova sconfisse Pisa nella battaglia della Meloria. Le galee genovesi, cariche di vogatori prigionieri si trovarono coinvolte in una tempesta. Nel trambusto alcuni barilotti d’olio e dei sacchi di ceci si rovesciarono, inzuppandosi di acqua salata. Poiché le provviste erano quelle che erano e non c’era molto da scegliere, si recuperò il possibile e ai marinai vennero date scodelle di una purea informe di ceci e olio. Nel tentativo di rendere meno peggio la cosa, alcune scodelle vennero lasciate al sole, che asciugò il composto in una specie di frittella. Rientrati a terra i genovesi pensarono di migliorare la scoperta improvvisata, cuocendo la purea in forno. Il risultato piacque e, per scherno agli sconfitti, venne chiamato l’oro di Pisa. Preparazione Secondo una delle molte ricette più diffuse: stemperare una parte di farina di ceci con da 3 a 4 parti d’acqua in una terrina, aggiungere il sale e mescolare energicamente per sciogliere i grumi di farina (eventualmente schiacciandoli contro la parete della terrina con il cucchiaio). Lasciare riposare la miscela per alcune ore mescolando di tanto in tanto per evitare la decantazione della farina e sciogliendo sempre i grumi residui. Ungere una teglia in rame stagnato con un velo d’olio d’oliva (una parte di olio per 5-10 parti di ceci) porla in forno per alcuni minuti (questo accorgimento serve a facilitare il successivo distacco) quindi tirarla fuori dal forno e versarvi la miscela partendo dal centro della teglia (lo spessore deve essere di almeno 5 mm ma inferiore a 1 cm). “Spezzare” l’olio con un cucchiaio di legno dai bordi verso il centro della teglia (fino a fare affiorare macchie di olio sparse sulla superficie) e infornare nel forno a legna già ben caldo. Nella primissima fase della cottura è importante girare la teglia in modo da mantenere uniforme lo spessore (essendo molto difficile che il forno sia completamente in piano questo evita di avere parti più spesse e poco cotte e parti troppo sottili e bruciate). È possibile arricchire la ricetta cospargendo la farinata prima di infornare con rosmarino, cipolla, carciofi o cipollotti oppure a metà cottura con stracchino, gorgonzola, salsiccia o bianchetti, tipico pescato della costa ligure.

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