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Ricette, Tradizioni

Sciatt

Letteralmente sciatt in dialetto valtellinese vuol dire rospo. Il nome deriva dalla gobba creata dal ripieno, che li rende somiglianti a sciatt, cioè a rospi. Altri, pur riferendo il termine alla forma irregolare delle frittelle, lo vogliono sincope dialettale di sciadatto = già adatto, cioè senza forma, vicino all’italiano sciatto. Gli sciatt sono però delle frittelline croccanti di forma tondeggiante con cuore di formaggio fuso, solitamente servite su letto di cicoria. Originariamente, gli sciatt erano tipici del solo paese di Teglio, ma vengono oggi considerati una specialità dell’intera valle. Una miscela di farina di grano saraceno e farina bianca viene impastata utilizzando birra, fino ad ottenere un composto non troppo liquido, al quale andranno uniti il formaggio Casera tagliato a dadini, il pane grattugiato, un pizzico di lievito e la grappa Ingredienti (per 4 persone):– farina di grano saraceno gr. 200– farina bianca gr. 100– formaggio Valtellina Casera gr. 250– grappa 1 bicchierino– acqua minerale gassata q.b.– olio per friggere– sale. Preparazione:miscelare in una ciotola le farine, la grappa e il sale, aggiungendo acqua minerale, fino ad ottenere un impasto non troppo morbido. Tagliare il formaggio “Casera” a cubetti (di circa 2 cm di lato) ed immergerli nella pastella. Raccogliere con un cucchiaio un cubetto di formaggio alla volta, adeguatamente ricoperto dall’impasto, e lasciarlo cadere nell’olio bollente.Far colorire gli sciatt e scolarli. Servire gli sciatt molto caldi adagiati su un letto di cicoria tagliata finemente e condita con olio e aceto

I Tipici

Prosciutto di Pietraroja PAT

Il prosciutto di Pietraroja, comune della provincia di Benevento, è rinomato da secoli, tanto che in una collezione di stampe dell’archivio del Regno di Napoli il simbolo di questo piccolo paese del Beneventano rappresenta una donna con un prosciutto Apprezzati già nel Settecento, questi prosciutti di grosse dimensioni vengono prima lasciati riposare per circa venti giorni senza conservanti e con una modesta quantità di sale grosso (grazie al clima fresco e ventilato si conservano comunque). In seguito vengono appesi ad asciugare in un luogo fumoso per una settimana e poi sospesi tra i muri di pietra centenari di stanze asciutte e aerate, per un periodo che va dai dodici ai venti mesi al massimo. Durante le diverse fasi della lavorazione subiscono una serie di pressature in torchi di legno. Per tradizione la fetta, tagliata spessa, si consuma a tocchetti.

I Tipici

Melone Mantovano IGP

La storia del Melone Mantovano è antichissima e diffusa in tutta la regione. Nella zona di ViadanaIl melone è senz’altro “principe” nel Viadanese, al punto da dare il nome a una varietà assai apprezzata, di colore giallo, con striature verdi e forma tondo-ovale. Qui compaiono le documentazioni storiche più antiche, risalenti alla fine del Quattrocento, l’epoca della scoperta delle Americhe. Nell’Archivio Gonzaga sono conservati scritti che – riportando notizie particolareggiate sul melone, con descrizioni dettagliate dell’apprezzamento da parte dei Signori destinatari – dimostrano l’importanza della coltivazione di tale frutto in questa zona. Ad esempio, in una lettera datata 20 agosto 1529 (Arch. Gonzaga, b. 2513) si legge che: “…la quantità de li meloni che vene ogni matina in su la piaza è una cossa granda, et molti belli et boni….Il 3 agosto 1548 (Arch. Gonzaga b. 2544), il Podestà Felice Fiera spedisce quattro bellissimi meloni al Duca Francesco Gonzaga e li fa accompagnare da alcune raccomandazioni scritte al “signor Castelano et Secretario di Sua Eccellentia”. Scrive dunque il Podestà: “Molto magnifico signor mio observandissimo. Mando quatro meloni ch’io credo sian boni, ma sono bellissimi. La supplico farne aver dono a madama illustrissima et al cardinale et a sua eccelentia perché non ancora parse qua de più belli, et a vostra signoria baso le mani et mi raccomando.Da Viadana alli 3 di Agosto 1548. Di vostra signoria Parente et servitore Felice Fiera”. Su alcune maioliche della metà del XVII secolo esposte nel Museo civico “A.Parazzi” di Viadana sono raffigurati meloni che fanno da sfondo ad animali e ad altre immagini; nello stesso museo c’è un olio su tela risalente al sec. XVII che raffigura, con altri frutti, anche il melone; a Sabbioneta, nel Palazzo Giardino, vi sono affreschi rappresentanti scene tratte dal mondo della natura dove, con fiori e uccelli, fanno bella mostra di sé anche alcuni stupendi meloni. Viadana è poi anche il punto di irraggiamento di questa coltura nel cremonese. La coltivazione di meloni a Casteldidone, nel cremonese, inizia infatti nel 1958, quando una famiglia di agricoltori proveniente da Viadana introduce per la prima volta questa coltura in una zona che sino ad allora non la praticava. I risultati sono estremamente positivi, tanto che, nel giro di qualche anno, anche altri agricoltori locali iniziarono a coltivare meloni. Nella zona di SermideNel Duemila, i restauri della chiesa di Sermide hanno portato alla luce, sull’arco che separa l’abside dal presbiterio, alcune decorazioni in cui compaiono i prodotti ortofrutticoli locali, tra i quali si distinguono in bella evidenza i meloni, frammisti a cipolle, zucche (e qui la citazione dei tortelli di zucca, altra perla di questo territorio, è d’obbligo) uva e fichi. È questa la testimonianza – senz’altro attendibile – della presenza in zona del nostro frutto sin da tempi assai remoti. Infatti la costruzione della chiesa dedicata alla Santa Croce (e probabilmente voluta dai monaci Benedettini) risale ai secoli XI e XII d.C. Di certo essa esisteva nel 1479, perché un documento conservato nell’Archivio Gonzaga di Mantova riporta il resoconto della visita pastorale compiuta dal vescovo della città, il cardinale Francesco Gonzaga, proprio a Sermide, per consacrare la chiesa e…i suoi meloni. Altra testimonianza è quella contenuta nella lettera datata 7 agosto 1480, inviata dalla podestarìa di Sermate al signore Federico I Gonzaga: nell’inviare “30 frutti di mellone” si sconsiglia vivamente di “mandare a prendere melloni di Ferrara”. I nostri sono più buoni, sembra di sentire dire: dove il campanilismo – sostenuto dal gusto – gioca qui la sua partita. Nella zona di RodigoLa terza zona in cui il melone fa “da padrone” é quella di Rodigo, un paese a circa quindici chilometri dal capoluogo. Qui, in brevissimo tempo (e cioè nell’arco di soli cinquant’anni), grazie alla situazione pedologica e climatica, nonché alla vivace iniziativa imprenditoriale di alcune aziende la produzione ha guadagnato una sempre maggiore quantità di superficie coltivata. A MantovaMa anche Mantova città è coinvolta dal melone. Tracce documentali risalenti al 1579 testimoniano la presenza di un oratorio dedicato a “Santa Maria del melone”, nella centralissima via Cavour, che si trova a pochi passi dalla famosa piazza Sordello. Il donatore dell’oratorio fu San Carlo Borromeo, che lo trasmise in tale data alla Confraternita di Santa Croce, a testimonianza di una coltura e di una cultura profondamente radicate in tutto il territorio. Nel 1808, però, il luogo cessa di essere la casa della “Protettrice del melone” e, malinconicamente, cambia destinazione per essere trasformato in una stalla. D’altra parte, però, la protezione aveva ben funzionato: il melone era già diventato il frutto principe di tutto il mantovano. Inoltre, Mantova, in tempi più recenti, viene segnalata anche in quanto ha favorito lo sviluppo delle tecniche di innesto erbaceo che iniziano a diffondersi in Italia (al Nord in particolare) verso la fine degli anni ’70, grazie alle sperimentazioni condotte del Centro Ricerche del polo chimico della città Disciplinare

Ricette, Tradizioni

Sa fregula

La tradizione gastronomica sarda  ha gusti, sapori e odori il più delle volte inconsueti per chi viene d’oltremare, come insoliti sono i nomi delle pietanze. Sa fregula è un prodotto tradizionale sardo e sono piccole sfere irregolari di pasta di semola di grano duro e acqua, con forma rustica  dal sapore caratteristico che, dopo la naturale essiccazione e tostatura, assumono la doratura. Il termine deriva dal latino frisare, nel senso di sminuzzare e fregola in lingua italiana significa piccolo frammento, frantume, briciola. Sa fregula si forma  bagnando con acqua la semola contenuta in un cestino ed aiutandosi con la mano in un movimento circolare. Si ottengono così piccole quantità di pasta dalla forma sferica che vengono setacciate e differenziate in piccole, medie e grandi ed infine tostate al forno. Ideale per minestre o con sughi marinari, si presta sia come piatto completo o d’accompagnamento. Fregola con cozze e arselleIngredienti per 6 persone : 500 gr. di fregola grossa sarda, 500 gr. di arselle o vongole, 200 gr. di cozze, Olio extravergine di oliva, 2 spicchi d’aglio, 600 gr. di pomodori freschi o pelati, Prezzemolo e basilico. Lavare le cozze e le arselle e metterle da parte con il guscio.Intanto far rosolare l’aglio e il prezzemolo nell’olio extravergine d’oliva Aggiungere le cozze , le arselle e i pomodori . Far cuocere il tutto per qualche minuto. Aggiungere circa un litro d’acqua e una presa di sale e continuare la cottura fino a bollitura. A questo punto aggiungere la fregola e far cuocere per circa dieci minuti mescolando il tutto di tanto in tanto. Servire caldo con un cucchiaio di olio extravergine d’oliva

Ricette, Tradizioni

Luccio in salsa

Le origini del luccio in salsa sono sicuramente molto antiche, se ne ha notizia già nel trattato dello Stefani: “Deve il luccio essere di fiume ovvero di lago buono e non paludoso; fra tutti i pesci, questo dà buon nutrimento… serviti con olio, succo di limoni e verdure; nello spiedo, lardati con angiove, serviti con salsa di capperini, code di gambari, zuccaro e aceto rosato … “ Il luccio, pesce di d’acqua dolce è sempre meno diffuso poiché mangia prede vive, dimora in genere in acque correnti, ha una crescita molto lenta e non si può allevare poiché non sopporta la cattività. La permanenza del luccio nei menù dei ristoranti mantovani può quindi essere interpretata come ricerca e valorizzazione della tradizione perché è un pesce sempre più raro. Sicuramente il pesce di lago e di fiume a Mantova è sempre stato un alimento molto disponibile, a costo zero: la città è costruita come una fortezza, circondata dalle acque; dunque la cucina di pesce d’acqua dolce ha potuto prendere agevolmente piede e svilupparsi abbondantemente nel mantovano. Il luccio in salsa è il “secondo” che maggiormente caratterizza la tradizione gastronomica mantovana ed è generalmente accompagnato da fette di polenta abbrustolita; accostamento insolito per il pesce d’acqua dolce ma al quale i mantovani difficilmente sanno rinunciare anche per antica tradizioneIngredientiLuccio di circa 1kg, Farina fioretto 200g, Bicchiere di vino bianco 1, Costa di sedano, carota 1, Mezza cipolla, capperi, peperoncini sott’aceto, aglio, prezzemolo, acciughe sotto sale, olio q.b ProcedimentoPulire e lavare il luccio. Lessarlo mettendolo in pentola quando l’acqua è calda ma non bollente; aggiungere il vino bianco, la mezza cipolla, la carota e una costa di sedano. Preparare la salsa tritando insieme uno spicchio d’aglio, il prezzemolo, 6 acciughe sotto sale diliscate, un cucchiaio di capperi e 6 peperoncini verdi sott’aceto; il tutto amalgamato con olio extra vergine d’oliva. Quando il luccio sarà cotto, diliscarlo, filettarlo e metterlo in un piatto di portata coperto della salsa. Farlo riposare almeno un paio d’ore al fresco per insaporirlo meglio. Tratto da “Parco del Mincio“

Vini

Chianti DOCG

Forse il suo nome significa “battito di ali” o “clamore e suoni di corni” oppure più semplicemente è l’estensione topografica del nome personale “Clante”, frequente tra gli Etruschi. Il grande sviluppo della viticoltura dall’avvento dei Medici all’intuizione del Barone Ricasoli ha portato alla nascita di un vino di rinomanza internazionale grazie anche all’orografia collinare, alle diverse tipologie di terreno dall’argilloso al sabbioso e alle speciali tecniche di vinificazione che gli conferiscono una maggiore vivezza e rotondità. Descrizione:  Colore rubino vivace tendente al granato con l’invecchiamento. Odore intensamente vinoso, talvolta con profumo di mammola e con più pronunziato carattere di finezza nella fase di invecchiamento. Sapore armonico, sapido, leggermente tannico, che si affina col tempo al morbido vellutato. Abbinamenti:  A tutto pasto, antipasti alla toscana con salumi, prosciutto e crostini neri di milza, panino con il lampredotto, trippa alla fiorentina, pici al ragù; primi ben conditi, bistecca di chianina alla brace, arrosti di maiale, selvaggina e formaggi stagionati con la Riserva. Disciplinare:  approvato DOC con DPR 09.08.67 (GU217-30.8.67), poi approvato DOCG con Dpr 02.07.84 (G.U. 290 – 20.10.1984)

Ricette, Tradizioni

Jota

Tra tante minestre ricche di verdure della cucina regionale friulana spicca questo piatto povero di orgine slava che si trova, con diverse varianti in un’area che comprende il Friuli e la Slovenia e di cui Trieste e Gorizia si contendono il primato. La prima testimonianza della jota ci viene da un documento cividalese scritto in lingua friulana del XV secolo E’ un minestrone a base di fagioli  Borlotti di Carnia PAT ma anche Lamon della Vallata Bellunese IGP, foglie di cavolo cappuccio messi in concia sotto sale o nell’aceto (crauti) pancetta, costine affumicate e cotenna di maiale, cotto a lungo in una pentola preferibilmente di coccio. La versione goriziana ha un caratteristico colore scuro per la maggior quantità di fagioli e la presenza di orzo. Ingredienti per 4 persone: 500 g di crauti acidi (preferibilmente sfusi),200g di fagioli,4 patate, 2 foglie di alloro, cumino,2 spicchi di aglio,sale,pepe,olio, farina Procedimento: La sera prima mettere i fagioli a bagno in acqua fredda. In una pentola far scaldare l’olio e far rosolare 2 spicchi di aglio schiacciati fino a portarli a doratura. Quindi eliminare l’aglio. Aggiungere i crauti e coprirli a raso con acqua. Aggiungere un pizzico di cumino, sale e pepe. Far consumare a fuoco lento per circa 1/2 ora. In un’altra pentola cucinare i fagioli, lavati e scolati, con il brodo vegetale e 2 foglie di alloro, a fuoco lento per 1 ora e 15 minuti. Tagliare le patate a pezzetti, aggiungerle al brodo e fagioli, e proseguire la cottura per 15 minuti. Togliere dal fuoco e passare fagioli e patate fino ad ottenere una purea omogenea. Aggiungere la purea così ottenuta ai crauti preparati in precedenza. A parte, in un piccolo pentolino, soffriggere i rimanenti spicchi di aglio schiacciati in 1 – 2 cucchiai di olio. Eliminarli una volta dorati.  Stemperare nell’olio la farina mescolando attentamente per evitare la formazione di grumi. A tostatura avvenuta aggiungere la farina alla minestra. Aggiungere di sale e pepe e servire calda accompagnata da crostini di pane.

Ricette, Tradizioni

Pane frattau

Un piatto tipico della Sardegna pastorale tra i più conosciuti, molto nutriente, buono e facilissimo da preparare. Il pane carasau, alla base di questo piatto, è il pane croccante, molto sottile, che le donne della Sardegna preparavano per i pastori che andavano sulle montagne a pascolare il gregge e stavano mesi lontani da casa, avendo quindi necessità di portare con se del cibo che non si deteriorasse nel tempo. Le donne di casa preparavano il pane carasau una volta al mese e di solito in gruppo, perché lavorare l’impasto era molto faticoso; era un lavoro a catena, ognuna aveva un compito e tutto si eseguiva secondo un rituale magico e accorto. Il pane doveva durare almeno due mesi e quindi doveva essere fatto con attenzione. Leggenda vuole che il Pane Frattau abbia le sue radici nelle vecchie usanze dei pastori: quando questi partivano all’alba con le greggi, riponevano nella loro “taschedda” (comodo zaino in pelle) il cibo per la giornata: un po’ di pane carasau, del pecorino e dell’acqua. Al tramonto, al rientro a casa, il pane carasau così conservato si sminuzzava (vrattau/frattau, appunto) dentro la “taschedda” e tutto ciò non veniva mai buttato,ma ammorbidito nel brodo condito con un po’ di salsa di pomodoro e col pecorino rimasto e mangiato per cena. Queste sono le tradizioni pastorali più povere che hanno portato oggi a quella saporitissima pietanza arricchita dall’uovo in camici Ingredienti· gr. 400 di pane carasau· gr. 50 di pomodori pelati· gr. 100 di pecorino grattugiato· n. 4 uova· n. 1 spicchio d’aglio· basilico abbondanteDescrizione:Va preparato un sugo leggero con pomodori pelati, aglio, olio extravergine di oliva e basilico. Il tutto deve cuocere per 10-15 minuti. Nel frattempo si fa bollire, a parte, in un tegame largo e alto, dell’acqua con un pizzico di sale, si spezza il pane e pezzo per pezzo si immerge, solo un attimo, nell’acqua bollente e si adagia sui piatti dei vari commensali. Strato dopo strato si condisce col sugo preparato precedentemente e una spolverata di pecorino, fino a raggiungere la dovuta porzione.Infine, nella stessa acqua, si fanno cuocere le uova in camicia che verranno adagiate sul piatto pronto.

I Tipici

Montasio DOP

Il Montasio nasce verso il 1200 nelle vallate delle Alpi Giulie e Carniche grazie alla costanza e intelligenza dei frati Benedettini. A Moggio Udinese (sul versante nord del Montasio) si trova il convento, oggi utilizzato dalle suore Clarisse, in cui probabilmente vennero affinate e riportate le varie tecniche di produzione proprie dei malghesi della zona. Questa tecnologia produttiva trovò ben presto una notevole diffusione nelle vallate di tutta la Carnia e nella Pianura Friulano-Veneta. I primi documenti che riportano la dicitura “Formaggio Montasio” sono i prezziari della città di San Daniele, datati 1775, che stabiliscono il prezzo del Montasio di molto superiore alla media degli altri formaggi. Da quel momento il Montasio è sempre stato presente in tutti i documenti mercantili dell’Italia nord-Orientale.pasta: compatta con leggera occhiatura;colore: naturale, leggermente paglierino; aroma: caratteristico;sapore: piccante e gradevole.

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