Compresa nel novero dei prodotti selvatici, la chiocciola è certamente uno degli alimenti più antichi della storia umana. La sua innocuità e la proverbiale lentezza, è evidente, furono un handicap per l’animale ed un invito a pranzo per l’uomo. I nostri lontani antenati, tuttavia, non dimenticarono la lumaca neanche quando – attrezzatisi per la caccia – presero a dedicare i loro sforzi principalmente ad animali di maggior taglia. Come nota Livio Cerini, «gli uomini han sempre mangiato le lumache, che tra l’altro erano più facili da catturare di un mammouth o anche di un semplice coniglio selvatico». Che ne abbiano consumato gran quantità, del resto, è un fatto testimoniato dai ritrovamenti, nelle caverne preistoriche, d’ammassi di gusci «pulitissimi e muti testimoni di un primordiale hors-d’oeuvre caldo».
Da allora non s’è mai smesso di mangiar lumache, nonostante le loro piuttosto alterne vicende come genere gastronomico: sono state considerate ora pietanza di rara prelibatezza ed ora piatto da bifolchi, ora alimento impuro (così le giudicava Mosè nominandole nella Bibbia) ed ora quale ingrediente riservato a medici e ad ammalati, ora vivanda popolare e perciò anonima ed ora boccone da signori e quindi cibo “colto” degno d’esser messo per iscritto, poi si saprà (con Rabelais) che «erano cibi per tutti». Per dirlo in breve, insomma, la chiocciola ha sempre avuto estimatori: anche nei periodi più bui della sua storia, vale a dire nei secoli XVII e XVIII.
Prelibate per i Greci, le chiocciole erano assai apprezzate anche dai Romani. Quattro ricette sono presenti nel celebre “De Re Coquinaria” di Apicio, che spurgava le lumache nel latte per diversi giorni prima della cottura e poi – quando si erano gonfiate tanto da non poter rientrare nel guscio – le friggeva o le arrostiva servendole con varie salse (prima fra tutte l’onnipresente garum).
All’epoca delle guerre civili tra Cesare e Pompeo, in ogni modo, quelle raccolte negli orti o nelle campagne del suburbio non erano più sufficienti a soddisfare le richieste. Plinio il Giovane assicura, nella sua “Naturalis Historia”, che i ricchi del tempo ne mangiavano molte provenienti da allevamenti in cui le bestiole venivano ingrassate con farine di cereali ed erbe aromatiche. Pare che l’inventore di tali allevamenti sia stato (nel tal Fulvio Lippino, che importava chiocciole da tutte le parti del mondo allora conosciuto. Per soddisfare i suoi ricchi clienti creò un servizio di traghetti, che trasportavano regolarmente a Roma le lumache fresche dalla Sardegna, dalla Sicilia, da Capri, dalle coste spagnole e nord-africane. Nella sua proprietà di Tarquinia Lippino ne aveva numerosi vivai, distinti secondo le diverse specie: in questo modo poteva tener separatamente le bianche «che nascono nella campagna di Rieti», le illiriche «caratterizzate da una grandezza straordinaria», le africane «che sono molto feconde», le non meglio precisate soletane «ricche di molta fama». L’idea fu ben presto copiata, e per poterne disporre a piacimento si allevavano le lumache in recinti vicino a casa, chiamati «cocleari». «Caput mundi» anche in questo, Roma insegnò alle popolazioni delle Gallie come degustare le chiocciole. I francesi, come si sa, non hanno dimenticato la lezione: ancor oggi, eccellono nell’arte di mangiarle in modo divino. Nei secoli dell’Alto Medioevo gli allevamenti scomparvero, ma il consumo di chiocciole era in ogni caso comune. Dal ‘300 fino al Rinascimento, anche se la loro popolarità fu sempre discussa, non scomparvero mai del tutto dai ricettari dei maestri gastronomi della scuola italiana. E poi, pur essendo palesemente animale del tutto terrestre, vennero rivalutate come “carne di magro” per il periodo quaresimale. Ideali in tempo di penitenza, dunque, da quando (si narra) un Papa che ne aveva voglia respinse le scandalizzate obiezioni del suo cuoco e confermò la richiesta di lumache semplicemente decretando «Estote pisces in aeternum»…
Ampiamente attestato è che in Francia, nel XVI secolo, pur non raccogliendo l’unanime consenso le lumache comparivano sulle migliori tavole. Nel secolo successivo e più avanti, però, a Parigi si generalizza il rifiuto della lumaca da parte di gastronomi e libri di cucina. A tratti, la chiocciola subisce il disprezzo o addirittura, contro ogni evidenza, è considerata immangiabile. Qualche esempio? Nella sua “Enciclopedia” (1765) Diderot riferisce che «solo i contadini mangiano le lumache negli stufati e nelle minestre», nel 1809 l’autore di un manuale di cucina (“Cours de gastronomie”) si domanda «come può piacere questo rettile disgustoso?» ed un altro dice della chiocciola che è «buona solo per la gente affamata». A parte quel «solo», c’è da ricordare che pochi anni dopo quest’ultima affermazione si dimostrò sensata: da sempre una manna durante le spaventose carestie che periodicamente colpivano l’intera Europa, le lumache furono mangiate su vasta scala durante quella del 1816… e la loro accettazione, nella cucina borghese, non diminuì più.
L’Ottocento, comunque, è il secolo in cui – provenienti direttamente dalla cucina popolare – le lumache ricompaiono con onore anche sulle tavole altolocate che fino ad allora le avevano disdegnate. Nell’alta cucina francese tornano in auge a partire dal 22 maggio 1814, complice una scommessa: nel corso di un memorabile banchetto il principe de Tayllerand, il cui cuoco Anacraonte conosceva venti diversi modi di prepararle, ne offrì allo zar Alessandro I. Qualche anno più tardi la preparazione “alla bourguignonne”, definita «succulenta» nella riedizione del 1840 del famoso “Cuisinier des cuisiniers” di Jourdain Lecointe, era ormai codificata.
La lumaca, finalmente e definitivamente, troneggiava in cucina su un aristocratico piedistallo. Senza paura d’esser contraddetto, nel 1870 J.-P.-A. de la Porte poteva scrivere (“Hygièn de la table”) che «[…] La lumaca fa la felicità di un gran numero di buongustai nelle stagioni d’autunno e inverno. […]». Affermazione non meno vera ai giorni nostri…