IGP

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Pera Mantovana IGP

La coltivazione della pera nel mantovano e soprattutto nella zona dell’ Oltrepò, è una pratica molto antica. Nel 1475 rappresenta la coltura più diffusa ed importante anche se esclusiva dei nobili e degli ecclesiastici. Nei giardini dei monasteri e nei broli delle corti signorili si coltivano ed incrociano varietà diverse di pera per ottenere frutti sempre più gustosi.  La produzione però viene destinata all’autoconsumo o al mercato locale a causa della difficoltà nella conservazione e nel trasporto di questo frutto. Sei varietà per identificare un frutto pregiato, coltivato fin dal Medioevo e conservato fino ad oggi grazie a sapienti innesti e incroci. Le varietà di Pera Mantovana coltivate sono sei: Abate Fetel, Conference, Decana del Comizio, Kaiser, Max Red Barlett e William. Sono tutte caratterizzate da un sapore dolce più o meno aromatico ma si distinguono per il colore e rugosità della buccia e ogni varietà ha un proprio periodo di coltivazione. La zona di produzione della Pera Mantovana IGP comprende l’intero territorio dei Comuni di Sabbioneta, Commessaggio, Viadana, Pomponesco, Dosolo, Gazzuolo, Suzzara, Borgoforte, Motteggiana, Bagnolo San Vito, Virgilio, Sustinente, Gonzaga, Pegognaga, Moglia, S.Benedetto Po, Quistello, Quingentole, S.Giacomo delle Segnate, S.Giovanni del Dosso, Schivenoglia, Pieve di Coriano, Revere, Ostiglia, Serravalle a Po, Villa Poma, Poggio Rusco, Magnacavallo, Borgofranco sul Po, Carbonara di Po, Sermide e Felonica, che delimitano un’area continua in provincia di Mantova. Dopo l’unità d’Italia e nel primo dopoguerra il necessario riassetto produttivo spinge a valorizzare le attività esistenti. La coltivazione del pero si sviluppa particolarmente grazie anche alle innovazioni tecnologiche nel settore della conservazione e dei trasporti.Il lavoro di produzione delle sei varietà di Pera Mantovana è affiancato da una importante attività di recupero e valorizzazione di varietà locali al fine di contribuire al mantenimento del patrimonio agricolo e ambientale di quelle zone.Nel 1998 la Pera Mantovana ottiene il riconoscimento europeo IGP e nasce il Consorzio Perwiva, che ne tutela e promuove la produzione.La produzione della Pera Mantovana IGP è regolata da un disciplinare di produzione approvato dalla Unione Europea e avviene secondo tecniche tradizionali della zona. Nell’Antichità e nel Medioevo si preferiva consumarla dopo la cottura. I broli sono piccoli appezzamenti delle corti signorili dove venivano coltivati gli alberi da frutto. La Pera Mantovana ha proprietà diuretiche, depurative, regolatrici intestinali ed è possibile consumarne anche un quantitativo elevato senza introdurre troppe calorie. La pera si conserva a basse temperature, mentre per gustarla in tutta la sua fragranza è consigliabile tenerla 4/5 giorni a temperatura ambiente prima del consumo.Tutte le varietà di Pera Mantovana hanno una polpa dolce, succosa e aromatica. Come tutta la frutta la Pera Mantovana può essere consumata fresca o cotta. Può essere utilizzata per la preparazione di dolci, macedonie e pietanze. L’uso tradizionale che ne facevano i contadini era di consumarla abbinata ai formaggi: Provolone, Parmigiano Reggiano e Pecorino.

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Melone Mantovano IGP

La storia del Melone Mantovano è antichissima e diffusa in tutta la regione. Nella zona di ViadanaIl melone è senz’altro “principe” nel Viadanese, al punto da dare il nome a una varietà assai apprezzata, di colore giallo, con striature verdi e forma tondo-ovale. Qui compaiono le documentazioni storiche più antiche, risalenti alla fine del Quattrocento, l’epoca della scoperta delle Americhe. Nell’Archivio Gonzaga sono conservati scritti che – riportando notizie particolareggiate sul melone, con descrizioni dettagliate dell’apprezzamento da parte dei Signori destinatari – dimostrano l’importanza della coltivazione di tale frutto in questa zona. Ad esempio, in una lettera datata 20 agosto 1529 (Arch. Gonzaga, b. 2513) si legge che: “…la quantità de li meloni che vene ogni matina in su la piaza è una cossa granda, et molti belli et boni….Il 3 agosto 1548 (Arch. Gonzaga b. 2544), il Podestà Felice Fiera spedisce quattro bellissimi meloni al Duca Francesco Gonzaga e li fa accompagnare da alcune raccomandazioni scritte al “signor Castelano et Secretario di Sua Eccellentia”. Scrive dunque il Podestà: “Molto magnifico signor mio observandissimo. Mando quatro meloni ch’io credo sian boni, ma sono bellissimi. La supplico farne aver dono a madama illustrissima et al cardinale et a sua eccelentia perché non ancora parse qua de più belli, et a vostra signoria baso le mani et mi raccomando.Da Viadana alli 3 di Agosto 1548. Di vostra signoria Parente et servitore Felice Fiera”. Su alcune maioliche della metà del XVII secolo esposte nel Museo civico “A.Parazzi” di Viadana sono raffigurati meloni che fanno da sfondo ad animali e ad altre immagini; nello stesso museo c’è un olio su tela risalente al sec. XVII che raffigura, con altri frutti, anche il melone; a Sabbioneta, nel Palazzo Giardino, vi sono affreschi rappresentanti scene tratte dal mondo della natura dove, con fiori e uccelli, fanno bella mostra di sé anche alcuni stupendi meloni. Viadana è poi anche il punto di irraggiamento di questa coltura nel cremonese. La coltivazione di meloni a Casteldidone, nel cremonese, inizia infatti nel 1958, quando una famiglia di agricoltori proveniente da Viadana introduce per la prima volta questa coltura in una zona che sino ad allora non la praticava. I risultati sono estremamente positivi, tanto che, nel giro di qualche anno, anche altri agricoltori locali iniziarono a coltivare meloni. Nella zona di SermideNel Duemila, i restauri della chiesa di Sermide hanno portato alla luce, sull’arco che separa l’abside dal presbiterio, alcune decorazioni in cui compaiono i prodotti ortofrutticoli locali, tra i quali si distinguono in bella evidenza i meloni, frammisti a cipolle, zucche (e qui la citazione dei tortelli di zucca, altra perla di questo territorio, è d’obbligo) uva e fichi. È questa la testimonianza – senz’altro attendibile – della presenza in zona del nostro frutto sin da tempi assai remoti. Infatti la costruzione della chiesa dedicata alla Santa Croce (e probabilmente voluta dai monaci Benedettini) risale ai secoli XI e XII d.C. Di certo essa esisteva nel 1479, perché un documento conservato nell’Archivio Gonzaga di Mantova riporta il resoconto della visita pastorale compiuta dal vescovo della città, il cardinale Francesco Gonzaga, proprio a Sermide, per consacrare la chiesa e…i suoi meloni. Altra testimonianza è quella contenuta nella lettera datata 7 agosto 1480, inviata dalla podestarìa di Sermate al signore Federico I Gonzaga: nell’inviare “30 frutti di mellone” si sconsiglia vivamente di “mandare a prendere melloni di Ferrara”. I nostri sono più buoni, sembra di sentire dire: dove il campanilismo – sostenuto dal gusto – gioca qui la sua partita. Nella zona di RodigoLa terza zona in cui il melone fa “da padrone” é quella di Rodigo, un paese a circa quindici chilometri dal capoluogo. Qui, in brevissimo tempo (e cioè nell’arco di soli cinquant’anni), grazie alla situazione pedologica e climatica, nonché alla vivace iniziativa imprenditoriale di alcune aziende la produzione ha guadagnato una sempre maggiore quantità di superficie coltivata. A MantovaMa anche Mantova città è coinvolta dal melone. Tracce documentali risalenti al 1579 testimoniano la presenza di un oratorio dedicato a “Santa Maria del melone”, nella centralissima via Cavour, che si trova a pochi passi dalla famosa piazza Sordello. Il donatore dell’oratorio fu San Carlo Borromeo, che lo trasmise in tale data alla Confraternita di Santa Croce, a testimonianza di una coltura e di una cultura profondamente radicate in tutto il territorio. Nel 1808, però, il luogo cessa di essere la casa della “Protettrice del melone” e, malinconicamente, cambia destinazione per essere trasformato in una stalla. D’altra parte, però, la protezione aveva ben funzionato: il melone era già diventato il frutto principe di tutto il mantovano. Inoltre, Mantova, in tempi più recenti, viene segnalata anche in quanto ha favorito lo sviluppo delle tecniche di innesto erbaceo che iniziano a diffondersi in Italia (al Nord in particolare) verso la fine degli anni ’70, grazie alle sperimentazioni condotte del Centro Ricerche del polo chimico della città Disciplinare

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Ciliegia di Vignola IGP

La coltivazione della ciliegia nel territorio di Vignola ha origini antiche e molto radicate. L’eccezionalità delle condizioni pedo-climatiche della zona, infatti, ha fatto sì che la pianta trovasse qui il suo ambiente ideale, diventando col tempo e grazie all’impegno degli agricoltori la più importante realtà agricola. Numerosi documenti storici confermano che la pianta è presente, in consociazione alla vite, già a metà dell’Ottocento e negli anni a seguire la produzione e la commercializzazione hanno avuto un andamento crescente. Le due colture nel tempo si alternano, con prevalenza ora dell’una ora dell’altra a seconda della zona, poi emerge decisamente il ciliegio, più longevo e adatto alle peculiarità pedoclimatiche della zona A differenza di altre tipologie di ciliegia, la Igp di Vignola presenta dimensioni molto maggiori e questa caratteristica la rende particolarmente apprezzata e ricercata. Per la croccantezza della polpa e il sapore dolce risulta essere il frutto ideale con cui chiudere il pasto. Risulta ottimo ingrediente per svariate ricette, dolci e salate: la “ciliegiata”, cotta nel vino e nello zucchero; le marmellate; il classico dolce clafoutis; salse per condire la cacciagione; liquori, come il kirsch o lo cherry. Perfetta anche per la preparazione della frutta candita o sotto spirito

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Melannurca Campana IGP

La “Melannurca Campana” IGP è presente in Campania da almeno due millenni. La sua raffigurazione nei dipinti rinvenuti negli scavi di Ercolano e in particolare nella Casa dei Cervi, testimonia l’antichissima legame dell’Annurca con il mondo romano e la Campania felix in particolare. Luogo di origine sarebbe l’agro puteolano, come si desume dal Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Proprio per la provenienza da Pozzuoli, dove è presente il lago di Averno, sede degli Inferi, Plinio la chiama “Mala Orcula” in quanto prodotta intorno all’Orco (gli Inferi). Anche Gian Battista della Porta, nel 1583, nel suo “Pomarium”, nel descrivere le mele che si producono a Pozzuoli cita testualmente: (… le mele che da Varrone, Columella e Macrobio sono dette orbiculate, provenienti da Pozzuoli, hanno la buccia rossa, da sembrare macchiate nel sangue e sono dolci di sapore, volgarmente sono chiamate Orcole…). Da qui i nomi di “anorcola” e poi “annorcola” utilizzati nei secoli successivi fino a giungere al 1876 quando il nome “Annurca” compare ufficialmente nel Manuale di Arboricoltura di G. A. Pasquale. Tradizionalmente coltivata nell’area flegrea e vesuviana, spesso in aziende di piccola dimensione e talora in promiscuità con ortaggi ed altri fruttiferi, la “Melannurca Campana” IGP si è andata diffondendo nel secolo scorso prima nelle aree aversana, maddalonese e beneventana, poi via via nel nocerino, nell’irno, i picentini e infine in tutta l’area dell’alto casertano. Proprio qui, già da alcuni decenni, con la regressione delle superfici agricole dell’area napoletana a causa della conurbazione delle zone costiere, ha trovato il territorio ove essa è più intensamente coltivata. L’Indicazione geografica protetta “Melannurca Campana” si riferisce ad una delle varietà italiane di melo più conosciute e più apprezzate in assoluto dai consumatori: l’Annurca. Definita la “regina delle mele”, infatti, l’Annurca è da sempre conosciuta soprattutto per la spiccata qualità dei suoi frutti, dalla polpa croccante, compatta, bianca, gradevolmente acidula e succosa, con aroma caratteristico e profumo finissimo, una vera delizia per gli intenditori. Il frutto è medio-piccolo, di forma appiattita-rotondeggiante, leggermente asimmetrica, con picciolo corto e debole. La buccia, liscia, cerosa, mediamente rugginosa nella cavità peduncolare, è di colore giallo-verde, con striature di rosso su circa il 60-70% della superficie a completa maturazione, percentuale di sovraccolore che raggiunge l’80-90% dopo il periodo di arrossamento a terra. La “Melannurca Campana” IGP rivendica da sempre virtù salutari: altamente nutritiva per l’alto contenuto in vitamine (B1, B2, PP e C) e minerali (potassio, ferro, fosforo, manganese), ricca di fibre, regola le funzioni intestinali, è diuretica, particolarmente adatta ai bambini ed agli anziani, è indicata spesso nelle diete ai malati e in particolare ai diabetici. Anche per l’eccezionale rapporto acidi/zuccheri, le sue qualità organolettiche non trovano riscontro in altre varietà di mele. Una recente ricerca del Dipartimento di scienza degli alimenti dell’Universià di Napoli Federico II ha dimostrato che la mela Annurca dimezza i danni ossidativi alle cellule epiteliali gastriche. La sua azione gastroprotettiva dipende dalla ricchezza in composti fenolici, che sono in grado di prevenire così i danni ossidativi dell’apparato gastrico e aiutando a combattere le malattie gastriche legate all’azione di radicali liberi. Uno degli elementi di tipicità che certamente caratterizzano la “Melannurca Campana” IGP è l’arrossamento a terra delle mele nei cosiddetti “melai”. Essi sono costituiti da piccoli appezzamenti di terreno, sistemati adeguatamente in modo da evitare ristagni idrici, di larghezza non superiore a metri 1,50 su cui sono stesi strati di materiale soffice vario: un tempo si utilizzava la canapa, oggi sostituita da aghi di pino, trucioli di legna o altro materiale vegetale. Per la protezione dall’eccessivo irraggiamento solare i melai sono protetti da apprestamenti di varia natura. Durante la permanenza nei melai i frutti sono disposti su file esponendo alla luce la parte meno arrossata, vengono poi periodicamente rigirati ed accuratamente scelti, scartando quelli intaccati o marciti. E’ proprio questa pratica, volta a completare la maturazione dei frutti adottando metodi tradizionali e procedure effettuate tutte a mano, ad esaltare le caratteristiche qualitative della “Melannurca Campana” IGP, conferendogli quei valori di tipicità che nessun altra mela può vantare. Due gli ecotipi previsti dal disciplinare di produzione, con due distinte indicazioni varietali in etichetta: l’ “Annurca” classica e la diretta discendente “Annurca Rossa del Sud”, suo mutante naturale, diffuso nell’area di produzione da oltre un ventennio, che ha il pregio di produrre frutti a buccia rossa già sulla pianta. I frutti di maggior pregio, soprattutto dal punto di vista organolettico, a detta degli esperti sono quelli provenienti da piante innestate su franco, allevate a pieno vento e con scarsi apporti irrigui. Le indubbie caratteristiche organolettiche di questa mela, finora apprezzate soprattutto dai consumatori meridionali, stanno progressivamente conquistando anche altri mercati, grazie anche al riconoscimento del marchio di tutela e all’ingresso nei canali della grande distribuzione organizzata. Accanto ai succhi, di grande valore nutritivo, ottimi sono anche i liquori ottenuti dalle annurche, così come i dolci (crostate e sfogliatelle su tutti, ma anche le mitiche e tradizionali “mele cotte” al forno). Di recente, attraverso un programma di educazione alimentare della Regione Campania, la “Melannurca Campana” IGP è proposta al consumo dei bambini in visita a Città della Scienza nella forma commerciale della “quarta gamma” (confezione sigillata di una mela sbucciata e affettata in grado di mantenere inalterata per giorni la freschezza e l’aroma). Mele al mieleLavare e asciugare le mele privandole del torsolo senza eliminare il fondo del frutto. Disporre le mele cosi’ tagliate in una pirofila colmandole dal foro centrale con un cucchiaio di miele. Innaffiare con vino bianco e infornare in un forno già caldo a 180° per circa 15 minuti. Spolverizzare con lo zucchero prima di servire

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Limone di Sorrento IGP

Di origini antiche, se è vero che la presenza di limoni nell’area sorrentina è certificata da documenti storici del 1500, il “Limone di Sorrento” IGP ha in effetti antenati genetici che risalgono addirittura all’epoca romana. Su numerosi dipinti e mosaici rinvenuti negli scavi di Pompei ed Ercolano sono raffigurati infatti limoni molto simili agli attuali “massesi” e “ovali sorrentini” che testimoniano l’utilizzo di tali frutti profumati sulle mense dei nostri avi latini. Ma le più importanti documentazioni sulla presenza di limoni nella zona risalgono all’epoca rinascimentale. Atti di vendita, dipinti, trattati di letteratura e di botanica ci raccontano dell’impiego dei limoni prodotti localmente per i più svariati usi, anche se dobbiamo attendere il 1600 per avere la certezza della coltivazione in forma specializzata, come risulta dagli atti dei locali Padri Gesuiti. Ancora oggi esiste uno dei primi fondi coltivati, nominato appunto “Il Gesù”, situato nella Conca di Guarazzanno, tra Sorrento e Massalubrense. Questa testimonianza avvalora la tesi che è proprio da questi due comuni della Penisola Sorrentina che hanno avuto origine i nomi della varietà da cui si trae il prodotto: “Ovale di Sorrento” e “Massese”. Citato nelle opere di Torquato Tasso, nativo proprio di Sorrento, Giovanni Pontano e Giambattista della Porta, il “Limone di Sorrento” arriva fino all’800, quando lo storico Bonaventura da Sorrento ne testimonia la spedizione in tutto il mondo, soprattutto attraverso i bastimenti diretti verso l’America. Si deve comunque alla tenacia e alle capacità dei produttori locali, che sono andate sviluppandosi nel corso dei secoli, se oggi disponiamo di un prodotto altamente selezionato e di assoluta qualità. E’ soprattutto grazie al loro impegno che lo stesso paesaggio è andato a conformarsi alle loro esigenze: i famosi terrazzamenti e le mitiche “coperture” dei limoneti, qui denominati a giusta ragione “giardini di limone”, connotano fortemente la penisola sorrentina e contribuiscono alla sua fama nel mondo. Le caratteristiche di qualità del “Limone di Sorrento” IGP sono esaltate dalle particolari tecniche di produzione, ancora legate alla coltivazione delle piante sotto le famose “pagliarelle”, stuoie di paglia che vengono appoggiate a pali di sostegno di legno, solitamente di castagno, a copertura delle chiome degli alberi, al fine di proteggerli soprattutto dal freddo e dal vento e per conseguire anche un ritardo della maturazione dei frutti, che rappresenta uno dei principali elementi di tipicità di questa produzione. Area di produzione Il “Limone di Sorrento” IGP viene coltivato in tutti i comuni della Penisola Sorrentina e precisamente: Massa Lubrense, Meta, Piano di Sorrento, Sant’Agnello, Sorrento, Vico Equense, oltre che nell’isola di Capri, con i due comuni Capri ed Anacapri. fonte regionecampania.it

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Maccheroncini di Campofilone IGP

Una citazione di questo tipo di pasta la si trova nel ‘400 in una corrispondenza dell’Abbazia di Campofilone in cui è riportato che i maccheroncini erano “tanto delicati da sciogliersi in bocca”. Si parla di maccheroncini anche nelle ricette del 1700 e del 1800, riportate nei quaderni di cucina di alcune case nobili come i conti Stelluti-Scala e i conti Vinci. La produzione dei maccheroncini di Campofilone si identifica nel territorio del comune di Campofilone, un paesino posto sulle verdi colline marchigiane in provincia di Fermo, e si distinguono dalle altre paste alimentari perché la farina deve essere impastata solo con uova di gallina nella proporzione che varia, per ogni kg, da un minimo di 7 a un massimo di 10 nel caso di utilizzo di uova intere, oppure se espressa in valore percentuale  è pari a un minimo del 33%. Si usa generalmente semola di frumento duro oppure, a livello familiare, farina di grano tenero doppio zero purché abbia glutine forte con notevole capacità di assorbimento. L’impasto ottenuto, duro ed elastico, rimane poroso mentre la sfoglia sottile e uniforme nello spessore, rimane morbida. Il prodotto si presenta come un insieme di sottili fili. Per questo prodotto è all’esame dell’Unione Europea la richiesta di registrazione come indicazione geografica protetta (IGP). Si procede all’impasto degli ingredienti senza aggiunta di acqua. L’impasto viene sfogliato a mano oppure estruso in bronzo e sfogliato su rulli fino ad ottenere la sfoglia di spessore compreso tra 0,3 e 0,7 mm. Successivamente si procede al taglio mediante l’utilizzo di un coltello affilatissimo ottenendo in tal modo dei fili sottili che verranno poi mediante la lama di un coltello separati e disposti a treccia su fogli di carta bianca per alimenti di larghezza compresa tra 22 e 26 cm e lunghezza compresa tra 32 e 35 cm. I foglietti così ottenuti hanno un peso compreso tra 155 e 175 g ciascuno e vengono piegati, nella maniera tradizionale, ai quattro lati per evitare la fuoriuscita del prodotto e ordinatamente riposti in appositi telai. Quest’ultimi vengono quindi inseriti in apposite stanze di essiccazione ad una temperatura compresa tra 28 – 40 °C per una durata compresa tra le 24 e le 36 ore e successivamente confezionati. I Maccheroncini di Campofilone si distinguono decisamente dalle altre paste alimentari per la sottigliezza della sfoglia ed il taglio finissimo. Tali caratteristiche consentono al prodotto un ridottissimo tempo di cottura pari ad uno/due minuti nell’acqua bollente o direttamente nel condimento senza necessariamente essere lessato.Altra fondamentale caratteristica che dimostra l’unicità dei Maccheroncini di Campofilone è la  percentuale di uova che viene utilizzata nell’impasto. Essa, infatti, è nettamente superiore rispetto a quella utilizzata in altre tipologie di paste alimentari. Tale proporzione unitamente al processo di essicazione lento determina un’elevatissima resa del prodotto, infatti mentre 250 g di pasta generica corrispondono a 2 porzioni abbondanti, dallo stesso quantitativo di Maccheroncini di Campofilone si ottengono 4 porzioni.Questa capacità di resa dei Maccheroncini di Campofilone determina come conseguenza la capacità assorbente della pasta che trattiene una quantità di condimento superiore rispetto ad altre tipologie di pasta La valenza dei Maccheroncini di Campofilone sta nell’aver conservato immutata nel corso degli anni la tecnica di lavorazione, mantenendo inalterata la sua semplice e particolare composizione, il particolare tipo di essicazione, nonché nel fatto che si tratta di un prodotto che richiede, per la sua realizzazione, particolari doti di abilità e esperienza, caratteristiche queste che ne fanno una pasta dalle qualità in termini di resa, di gusto, di leggerezza e di facilità di cottura del tutto particolari.Parlare dei Maccheroncini di Campofilone significa parlare dell’espressione più autentica della cultura del territorio campofilonese. La produzione artigianale di questa pasta è la manifestazione della tradizione popolare del borgo medioevale di Campofilone tramandata di generazione in generazione. Le uova in particolare, non sempre a disposizione nel corso dell’anno e dipendenti dal ciclo biologico delle galline, hanno stimolato l’ingegno e la fantasia delle vergare campofilonesi che hanno iniziato a fare la pasta in casa, dapprima fresca e poi realizzando quello che sarebbe diventato un processo di essiccazione. La pasta essiccata infatti era più conveniente di quella fresca perché si conservava nella madie e poteva essere consumata durante tutto l’anno. La grossolanità del taglio aveva però un inconveniente: l’aria nel processo di essiccazione incurvava la pasta che si rompeva in più punti e non poteva essere degustata nella sua interezza. Allora le argute massaie hanno iniziato a tagliare la “pannella ” in fili sottilissimi, che non si spezzavano sotto l’azione dell’aria, restando intatti sino al consumo.L’arte dei Maccheroncini di Campofilone è nata dunque nelle cucine e poi nei laboratori artigianali e da allora questi sottilissimi fili di velo dorato hanno sempre rivestito un’importanza particolare, discostandosi dai piatti di “tutti i giorni”, rappresentando il piatto per eccellenza, simbolo di bravura della padrona di casa, nei pranzi di festa Una delle occasioni da non perdere per assaggiare la specialità gastronomica di Campofilone è la sagra. La nascita di questa festa risale al 1964 e da allora si svolge ogni anno, tre giorni nella prima decade di Agosto.

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Pasta di Gragnano IGP

La produzione della pasta, in particolare dei “maccaroni”, che ha reso famosa Gragnano nel mondo, risale alla fine del XVI secolo quando compaiono i primi pastifici a conduzione familiare. Gragnano era allora già famosa per la produzione dei tessuti (da qui piazza Aubry deve il nome popolare di “piazza conceria” ). La produzione dei maccaroni diventò veramente importante solo a partire dalla metà del XVII secolo quando la maggior parte dei gragnanesi si dedicò alla produzione della pasta. La produzione dell’ “oro bianco” era ed è favorita da particolari condizioni climatiche , come una leggera aria umida che permette la lenta essiccazione dei maccaroni. L’industria pastaia venne aiutata da ben 30 mulini ad acqua , i ruderi di alcuni di questi si possono ammirare nella “valle dei mulini”.Intanto il settore dell’industria tessile entrava in crisi e chiuse definitivamente nel 1783 per una morìa dei bachi che bloccò la produzione della seta. Da allora i gragnanesi si dedicarono alla “manifattura della pasta”. L’epoca d’oro della pasta di Gragnano è l’Ottocento. In questo secolo sorsero grandi pastifici a conduzione non familiare lungo via roma e piazza trivione che diventarono così il centro di Gragnano.I pastifici infatti esponevano i maccheroni ad essiccare proprio in queste strade. La produzione dei maccaroni non rallentò dopo l’ Unificazione, anzi. Dopo il 1861 i pastifici gragnanesi si aprirono ai mercati di città come Torino, Firenze e Milano. La produzione della pasta raggiunse quindi l’apice. Gragnano addirittura ottenne l’apertura di una stazione ferroviaria per l’esportazione dei maccheroni che collegava Gragnano a Napoli e quindi all’intero Paese. Il 12 maggio 1885, all’inaugurazione erano presenti nientemeno che il re Umberto I e sua moglie, la regina Margherita di Savoia. Successivamente i pastifici si ammodernarono. Arrivò l’energia elettrica e con questa i moderni macchinari che sostituirono gli antichi torchi azionati a mano. Il Novecento fu però un secolo difficile per la città della pasta. Le due Guerre Mondiali fecero entrare in crisi la produzione della pasta gragnanese che nel Dopoguerra dovette affrontare la concorrenza dei grandi pastifici del Nord Italia, che disponevano di capitali maggiori. Il terremoto del 1980 aggravò la situazione e ridusse il numero di pastifici a sole 8 unità. Nonostante i tanti problemi, Gragnano continua a essere la città della pasta. Oggi i pastifici puntano ad una produzione di qualità e propongo itinerari turistici alla scoperta della produzione di quella pasta che ha reso Gragnano famosa in tutto il mondo.

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Il salame d’oca di Mortara IGP

Prodotto d’eccellenza della tradizione gastronomica della Lomellina, questa specialità trae la propria origine dalla cucina  ebraica,  infatti in origine non prevedeva parti di maiale. Prodotto tipico della provincia di Pavia, il Salame d’oca di Mortara IGP è ottenuto con una ricetta non ancora uniforme, perché spesso i produttori custodiscono gelosamente la proporzione degli ingredienti utilizzati. Regola di base, però, è l’uso di budelli di pelle d’oca per insaccare il prodotto.Il Consorzio di Tutela del Salame d’oca che ha sede a Mortara, infatti, vieta l’uso di budelli artificiali. Inoltre, ogni salame dev’essere cucito e legato a mano.Di forma cilindrica e allungata, con una lunghezza di 30 – 40 centimetri e un diametro di 7-8 centimetri, il Salame d’oca si presenta alla vista di un bel colore rosso porpora. Il peso varia tra i 600 e i 900 grammi.Il Salame d’oca è tipico della Lomellina, in provincia di Pavia, zona in cui è stato ideato il singolare accostamento tra palmipedi e suini grazie alla creatività dei macellai e alle comunità ebraiche insediatesi nella stessa zona sin XVII dal secolo.Benché al principio l’oca fosse considerata solo un surrogato del maiale, le successive modalità di lavorazione delle carni hanno ispirato i produttori sino a raggiungere salumi di qualità eccellente, caratterizzati da un abbinamento unico al mondo. Fin dal Medioevo, la Lomellina è una zona dedita all’allevamento dell’oca. Nelle sue terre basse e acquitrinose, questo animale di corte offriva alle famiglie diverse risorse: carne, pelle, piume, grasso, fegato e frattaglie. Come per il maiale, la necessità di conservarne le carni ha spinto gli allevatori alla produzione di salami e prosciutti d’oca, ancor oggi legati a una lavorazione artigianale se non addirittura familiare. È ottenuto dalla lavorazione di carne magra d’oca, cui si aggiungono carne e grasso suino tritati, di solito la spalla come carne magra e la pancetta suina come parte grassa. Dopo esser stato tritato, all’impasto si aggiungono sale, pepe e aromi che variano a seconda del produttore.L’insacco avviene utilizzando la pelle dell’oca in precedenza tagliata e messa sotto sale; segue la stagionatura che dura intorno ai tre mesi. Il Salame d’oca crudo ha un sapore dolce e delicato, oltre a un piacevole sentore di viola.Ottimo come antipasto o spuntino specialmente se consumato secondo la tradizione lombarda con mostarda e salse agrodolci, il Salame d’oca può essere un eccellente secondo se accompagnato da verdure alla griglia o al vapore.Data la delicatezza delle carni se ne consiglia un abbinamento con un vino non troppo deciso, preferibilmente un bianco morbido e aromatico.  fonte buonalombardia

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