Lombardia

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Gnòc a la mulinèra

Fra le nebbie del fiume Po hanno preso le mosse svariati racconti e curiosi aneddoti, che più di qualcuno rammenta ancor oggi con un pizzico di fervida nostalgia. Erano tempi in cui nel paesaggio fluviale esistevano mulini e miseria. Nel 1873 solo nella zona del ferrarese c’erano ben 173 impianti natanti. I “molinari” trascorrevano le loro giornate nei mulini per custodirli e per lavorare i preziosi cereali raccolti di casa in casa, e che poi trasportavano alle macine in sacchi robusti e capaci. Farina e acqua erano i loro “ingredienti” quotidiani.Nella bassa cremonese viveva Teresa, figlia di un “molinaro”. Teresa gestiva un’osteria e ai commensali proponeva spesso un piatto che il padre cucinava per la propria famiglia, va da sé utilizzando gli ingredienti disponibili: farina e acqua! Per gli gnocchi – in quegli anni – utilizzare le patate era assolutamente fuori discussione. Si trattava di un autentico lusso, e casomai il prezioso tubero era usato assieme al condimento degli gnocchi, naturalmente in compagnia dei fagioli e del pomodoro. Per imbastire questa leccornia è sufficiente un po’ di farina e una pentola d’acqua bollente:ed ecco gli “gnocchi a la mulinèra”. La farina di grano tenero, impastata con acqua portata all’ebollizione (impastare con una forchetta, così da non scottarsi le mani), forma un composto consistente ed elastico, grazie all’azione del reticolo glutineo che l’acqua calda innesca con la farina. Una volta ottenuto l’impasto sarà diviso in rotolini lunghi e spessi che successivamente saranno “sezionati” in piccoli pezzetti di 3-4 cm (al max) di lunghezza. La caratteristica principale sta, soprattutto, nella trasformazione dei tocchi d’impasto in gnocchi, strisciando sulla spianatoia la pasta con tre dita e realizzando così la forma di una sottile barchetta arrotolata su se stessa. Segue una veloce sbollentata in acqua poco salata e, una volta scolati, vengono uniti in più strati al tradizionale condimento: la patata lessa schiacciata nella passata di pomodoro in compagnia dei fagioli borlotti. Con la loro forma singolare “catturano” in modo esemplare il condimento sopra descritto. Un territorio puo’ essere raccontato in molti modi, anche attraverso un piatto e gli ingredienti rivelano il passato di gente comune e di una terra ricca di storie come questa Teresa, raccontando la sua storia, prepara questi gnocchi

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Gnocchi di zucca

Da cibo povero e abituale sulle tavole dei nostri nonni a ingrediente di prelibate ricette, la zucca è un alimento di spicco nella tradizione culinaria mantovana ed è elemento di base per la preparazione di Gnocchi di zucca e tortelli.  Di forma rotondeggiante, gli Gnocchi di zucca sono preparati con zucche dalla polpa farinosa, mentre quelle un po’ più acquose sono ideali per la preparazione di minestre e risotti. Si narra che già nel XVII secolo il cuoco del Duca di Mantova, tale Bartolomeo Stefani, di origini bolognesi, preparasse questi squisiti gnocchi con la zucca gialla del luogo, polposa e senza filamenti. Pare, però, che gli gnocchi fossero conosciuti in tutto il territorio molto prima e che nei giorni di festa venissero offerti anche ai pellegrini giunti nelle abbazie e nei monasteri. Ingredienti1 kg zucca -300 grammi di farina tipo 00-1 uovo-50 grammi di burrosale e pepe q.b.-qualche foglia di salvia PreparazioneLessate la polpa della zucca, in precedenza tagliata a dadini, in acqua salata e dopo averla scolata, lasciatela intiepidire in un setaccio, affinché perda l’acqua in eccesso.Passatela poi al setaccio in un terrina. Una volta raffreddata, aggiungete la farina, l’uovo, il sale e mescolate, amalgamando bene gli ingredienti. Formate gli gnocchi con le mani o con un cucchiaio e lessateli in abbondante acqua salata. Non appena vengono a galla, estraeteli con un mestolo e condite con burro fuso, salvia e abbondante parmigiano. In alternativa, è possibile condire con un delicato sugo di pomodoro che contrasta il dolce della zucca, esaltandone il sapore.I piatti tipici della cucina mantovana, salvo rare eccezioni, sono rimasti confinati nel territorio d’origine. Infatti, tra le mille trattorie che ovunque offrono cucine tipiche regionali, o anche locali, pochissime propongono la cucina mantovana, e questo ha contribuito alla scarsa diffusione presso i buongustai delle prelibatezze mantovane.

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Pera Mantovana IGP

La coltivazione della pera nel mantovano e soprattutto nella zona dell’ Oltrepò, è una pratica molto antica. Nel 1475 rappresenta la coltura più diffusa ed importante anche se esclusiva dei nobili e degli ecclesiastici. Nei giardini dei monasteri e nei broli delle corti signorili si coltivano ed incrociano varietà diverse di pera per ottenere frutti sempre più gustosi.  La produzione però viene destinata all’autoconsumo o al mercato locale a causa della difficoltà nella conservazione e nel trasporto di questo frutto. Sei varietà per identificare un frutto pregiato, coltivato fin dal Medioevo e conservato fino ad oggi grazie a sapienti innesti e incroci. Le varietà di Pera Mantovana coltivate sono sei: Abate Fetel, Conference, Decana del Comizio, Kaiser, Max Red Barlett e William. Sono tutte caratterizzate da un sapore dolce più o meno aromatico ma si distinguono per il colore e rugosità della buccia e ogni varietà ha un proprio periodo di coltivazione. La zona di produzione della Pera Mantovana IGP comprende l’intero territorio dei Comuni di Sabbioneta, Commessaggio, Viadana, Pomponesco, Dosolo, Gazzuolo, Suzzara, Borgoforte, Motteggiana, Bagnolo San Vito, Virgilio, Sustinente, Gonzaga, Pegognaga, Moglia, S.Benedetto Po, Quistello, Quingentole, S.Giacomo delle Segnate, S.Giovanni del Dosso, Schivenoglia, Pieve di Coriano, Revere, Ostiglia, Serravalle a Po, Villa Poma, Poggio Rusco, Magnacavallo, Borgofranco sul Po, Carbonara di Po, Sermide e Felonica, che delimitano un’area continua in provincia di Mantova. Dopo l’unità d’Italia e nel primo dopoguerra il necessario riassetto produttivo spinge a valorizzare le attività esistenti. La coltivazione del pero si sviluppa particolarmente grazie anche alle innovazioni tecnologiche nel settore della conservazione e dei trasporti.Il lavoro di produzione delle sei varietà di Pera Mantovana è affiancato da una importante attività di recupero e valorizzazione di varietà locali al fine di contribuire al mantenimento del patrimonio agricolo e ambientale di quelle zone.Nel 1998 la Pera Mantovana ottiene il riconoscimento europeo IGP e nasce il Consorzio Perwiva, che ne tutela e promuove la produzione.La produzione della Pera Mantovana IGP è regolata da un disciplinare di produzione approvato dalla Unione Europea e avviene secondo tecniche tradizionali della zona. Nell’Antichità e nel Medioevo si preferiva consumarla dopo la cottura. I broli sono piccoli appezzamenti delle corti signorili dove venivano coltivati gli alberi da frutto. La Pera Mantovana ha proprietà diuretiche, depurative, regolatrici intestinali ed è possibile consumarne anche un quantitativo elevato senza introdurre troppe calorie. La pera si conserva a basse temperature, mentre per gustarla in tutta la sua fragranza è consigliabile tenerla 4/5 giorni a temperatura ambiente prima del consumo.Tutte le varietà di Pera Mantovana hanno una polpa dolce, succosa e aromatica. Come tutta la frutta la Pera Mantovana può essere consumata fresca o cotta. Può essere utilizzata per la preparazione di dolci, macedonie e pietanze. L’uso tradizionale che ne facevano i contadini era di consumarla abbinata ai formaggi: Provolone, Parmigiano Reggiano e Pecorino.

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Tiròt di Felonica PAT

Il Tiròt  è’ una saporita focaccia che tradizionalmente viene consumata durante merende con amici ma va benissimo come antipasto accompagnando salumi e tocchetti di grana. E’ una specialità tipica di Felonica, comune del basso mantovano, ed è inserita fra i prodotti tradizionali della regione Lombardia L’origine del nome di questo prodotto deriva da una fase della sua lavorazione manuale: quella in cui l’impasto viene steso o meglio “tirato” dentro la teglia, prima della cottura.  Una singolare gestualità, frutto della tradizione contadina, che si è trasformata nel tempo in autentica ritualità.  Per anni si è gustato questo alimento nei campi, al termine della raccolta delle cipolle, in un momento di festa collettiva e consolidata tradizione.  Oggi è invece generalmente apprezzato da chi sa riconoscere antichi sapori ed antichi richiami. Prendere un kg e mezzo di pasta di pane gia’ lievitata e incorporarvi mezzo kg di cipolle pestate fini e mezzo kg di ciccioli di maiale sbriciolati. Si otterrà  una  schiacciata di trenta centimetri di larghezza, la cui superficie verra’ incisa con un coltello disegnandola con losanghe; si lascia lievitare come per il pane e si cuoce in forno a calore vivo per mezz’ora e si puo’ gustare tiepida o fredda.

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Bruscitt

Bruscitt ovvero bruscolini, poichè la carne viene sminuzzata dul tagliere con il trinciante in modo da ottenere pezzetti della grandezza di un fagiolo. E’ un piatto tipico di Busto Arsizio menzionato nella Guida Gastronomica d’Italia nel 1931 La preparazione tradizionale prevedeva l’uso dello stuin di terracotta, con il coperchio ermeticamente sigillato da un foglio di carta da macellaio e bloccato da due pesi sovrapposti, per trattenere i liquidi e non fare asciugare la carne più del dovuto. La cottura a calore moderatissimo (ideale quello della brace del camino) si prolunga anche per tre ore e più. Per assicurare tenerezza ai bruscitt è necessario che i pezzettini di carne siano sempre intrisi di condimento ed è perciò consigliabile aggiungere al burro e alle striscioline di pancetta anche dei pezzettini di lardo. Ingtrdienti:g. 200 di carne di manzog. 20 di cipollag. 10 di caroteg. 10 di sedanoburro di centralealloro fresco, aglio un spicchio,vino corposo 50 mlbrodo di carne qb,Farina di polenta,Sale Descrizione:Tagliare a coltello fine la carne , tagliare fine le verdure e saltare la carne , unire i profumi freschi , aglio e sfumare con il vino , cuocere adagio se si dovesse asciugare troppo la carne unire del brodo . Tempo medio di cottura 40 min .Bollire l’acqua , salare e sfarinare la polenta , girare x circa 40 min aggiustare a piacere di sale e servire

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Valtellina Casera DOP

Il Valtellina Casera si ottiene dal latte prodotto negli allevamenti della provincia di Sondrio che viene lavorato tutti i giorni nei caseifici di fondovalle. La stagionatura delle forme avviene nelle tradizionali ‘casere’ o in adeguate strutture, per almeno 70 giorni prima di poter essere marchiate a fuoco. Le origini del Valtellina Casera risalgono al 1500 quando più allevatori univano il loro latte per effettuare una lavorazione collettiva nelle latterie turnarie e sociali, mettendo in atto una forma di risparmio e di condivisione dei momenti di vita. Il Valtellina Casera è prodotto con latte vaccino parzialmente scremato, quindi risulta più leggero e meno calorico rispetto al Bitto, ideale da portare in tavola ogni giorno. L’alimentazione delle bovine da cui deriva il latte è costituita prevalentemente da essenze spontanee ed erbai È un formaggio semigrasso, a pasta semicotta e semidura, prodotto lavorando il latte vaccino proveniente esclusivamente dagli allevamenti della provincia di Sondrio che viene parzialmente scremato prima di essere lavorato nei caseifici locali. Il sapore del Valtellina Casera giovane si sposa con il grano saraceno per dar vita ai piatti della tradizione valtellinese, i pizzoccheri e gli sciatt. Consorzio di Tutela

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Sciatt

Letteralmente sciatt in dialetto valtellinese vuol dire rospo. Il nome deriva dalla gobba creata dal ripieno, che li rende somiglianti a sciatt, cioè a rospi. Altri, pur riferendo il termine alla forma irregolare delle frittelle, lo vogliono sincope dialettale di sciadatto = già adatto, cioè senza forma, vicino all’italiano sciatto. Gli sciatt sono però delle frittelline croccanti di forma tondeggiante con cuore di formaggio fuso, solitamente servite su letto di cicoria. Originariamente, gli sciatt erano tipici del solo paese di Teglio, ma vengono oggi considerati una specialità dell’intera valle. Una miscela di farina di grano saraceno e farina bianca viene impastata utilizzando birra, fino ad ottenere un composto non troppo liquido, al quale andranno uniti il formaggio Casera tagliato a dadini, il pane grattugiato, un pizzico di lievito e la grappa Ingredienti (per 4 persone):– farina di grano saraceno gr. 200– farina bianca gr. 100– formaggio Valtellina Casera gr. 250– grappa 1 bicchierino– acqua minerale gassata q.b.– olio per friggere– sale. Preparazione:miscelare in una ciotola le farine, la grappa e il sale, aggiungendo acqua minerale, fino ad ottenere un impasto non troppo morbido. Tagliare il formaggio “Casera” a cubetti (di circa 2 cm di lato) ed immergerli nella pastella. Raccogliere con un cucchiaio un cubetto di formaggio alla volta, adeguatamente ricoperto dall’impasto, e lasciarlo cadere nell’olio bollente.Far colorire gli sciatt e scolarli. Servire gli sciatt molto caldi adagiati su un letto di cicoria tagliata finemente e condita con olio e aceto

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Melone Mantovano IGP

La storia del Melone Mantovano è antichissima e diffusa in tutta la regione. Nella zona di ViadanaIl melone è senz’altro “principe” nel Viadanese, al punto da dare il nome a una varietà assai apprezzata, di colore giallo, con striature verdi e forma tondo-ovale. Qui compaiono le documentazioni storiche più antiche, risalenti alla fine del Quattrocento, l’epoca della scoperta delle Americhe. Nell’Archivio Gonzaga sono conservati scritti che – riportando notizie particolareggiate sul melone, con descrizioni dettagliate dell’apprezzamento da parte dei Signori destinatari – dimostrano l’importanza della coltivazione di tale frutto in questa zona. Ad esempio, in una lettera datata 20 agosto 1529 (Arch. Gonzaga, b. 2513) si legge che: “…la quantità de li meloni che vene ogni matina in su la piaza è una cossa granda, et molti belli et boni….Il 3 agosto 1548 (Arch. Gonzaga b. 2544), il Podestà Felice Fiera spedisce quattro bellissimi meloni al Duca Francesco Gonzaga e li fa accompagnare da alcune raccomandazioni scritte al “signor Castelano et Secretario di Sua Eccellentia”. Scrive dunque il Podestà: “Molto magnifico signor mio observandissimo. Mando quatro meloni ch’io credo sian boni, ma sono bellissimi. La supplico farne aver dono a madama illustrissima et al cardinale et a sua eccelentia perché non ancora parse qua de più belli, et a vostra signoria baso le mani et mi raccomando.Da Viadana alli 3 di Agosto 1548. Di vostra signoria Parente et servitore Felice Fiera”. Su alcune maioliche della metà del XVII secolo esposte nel Museo civico “A.Parazzi” di Viadana sono raffigurati meloni che fanno da sfondo ad animali e ad altre immagini; nello stesso museo c’è un olio su tela risalente al sec. XVII che raffigura, con altri frutti, anche il melone; a Sabbioneta, nel Palazzo Giardino, vi sono affreschi rappresentanti scene tratte dal mondo della natura dove, con fiori e uccelli, fanno bella mostra di sé anche alcuni stupendi meloni. Viadana è poi anche il punto di irraggiamento di questa coltura nel cremonese. La coltivazione di meloni a Casteldidone, nel cremonese, inizia infatti nel 1958, quando una famiglia di agricoltori proveniente da Viadana introduce per la prima volta questa coltura in una zona che sino ad allora non la praticava. I risultati sono estremamente positivi, tanto che, nel giro di qualche anno, anche altri agricoltori locali iniziarono a coltivare meloni. Nella zona di SermideNel Duemila, i restauri della chiesa di Sermide hanno portato alla luce, sull’arco che separa l’abside dal presbiterio, alcune decorazioni in cui compaiono i prodotti ortofrutticoli locali, tra i quali si distinguono in bella evidenza i meloni, frammisti a cipolle, zucche (e qui la citazione dei tortelli di zucca, altra perla di questo territorio, è d’obbligo) uva e fichi. È questa la testimonianza – senz’altro attendibile – della presenza in zona del nostro frutto sin da tempi assai remoti. Infatti la costruzione della chiesa dedicata alla Santa Croce (e probabilmente voluta dai monaci Benedettini) risale ai secoli XI e XII d.C. Di certo essa esisteva nel 1479, perché un documento conservato nell’Archivio Gonzaga di Mantova riporta il resoconto della visita pastorale compiuta dal vescovo della città, il cardinale Francesco Gonzaga, proprio a Sermide, per consacrare la chiesa e…i suoi meloni. Altra testimonianza è quella contenuta nella lettera datata 7 agosto 1480, inviata dalla podestarìa di Sermate al signore Federico I Gonzaga: nell’inviare “30 frutti di mellone” si sconsiglia vivamente di “mandare a prendere melloni di Ferrara”. I nostri sono più buoni, sembra di sentire dire: dove il campanilismo – sostenuto dal gusto – gioca qui la sua partita. Nella zona di RodigoLa terza zona in cui il melone fa “da padrone” é quella di Rodigo, un paese a circa quindici chilometri dal capoluogo. Qui, in brevissimo tempo (e cioè nell’arco di soli cinquant’anni), grazie alla situazione pedologica e climatica, nonché alla vivace iniziativa imprenditoriale di alcune aziende la produzione ha guadagnato una sempre maggiore quantità di superficie coltivata. A MantovaMa anche Mantova città è coinvolta dal melone. Tracce documentali risalenti al 1579 testimoniano la presenza di un oratorio dedicato a “Santa Maria del melone”, nella centralissima via Cavour, che si trova a pochi passi dalla famosa piazza Sordello. Il donatore dell’oratorio fu San Carlo Borromeo, che lo trasmise in tale data alla Confraternita di Santa Croce, a testimonianza di una coltura e di una cultura profondamente radicate in tutto il territorio. Nel 1808, però, il luogo cessa di essere la casa della “Protettrice del melone” e, malinconicamente, cambia destinazione per essere trasformato in una stalla. D’altra parte, però, la protezione aveva ben funzionato: il melone era già diventato il frutto principe di tutto il mantovano. Inoltre, Mantova, in tempi più recenti, viene segnalata anche in quanto ha favorito lo sviluppo delle tecniche di innesto erbaceo che iniziano a diffondersi in Italia (al Nord in particolare) verso la fine degli anni ’70, grazie alle sperimentazioni condotte del Centro Ricerche del polo chimico della città Disciplinare

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Luccio in salsa

Le origini del luccio in salsa sono sicuramente molto antiche, se ne ha notizia già nel trattato dello Stefani: “Deve il luccio essere di fiume ovvero di lago buono e non paludoso; fra tutti i pesci, questo dà buon nutrimento… serviti con olio, succo di limoni e verdure; nello spiedo, lardati con angiove, serviti con salsa di capperini, code di gambari, zuccaro e aceto rosato … “ Il luccio, pesce di d’acqua dolce è sempre meno diffuso poiché mangia prede vive, dimora in genere in acque correnti, ha una crescita molto lenta e non si può allevare poiché non sopporta la cattività. La permanenza del luccio nei menù dei ristoranti mantovani può quindi essere interpretata come ricerca e valorizzazione della tradizione perché è un pesce sempre più raro. Sicuramente il pesce di lago e di fiume a Mantova è sempre stato un alimento molto disponibile, a costo zero: la città è costruita come una fortezza, circondata dalle acque; dunque la cucina di pesce d’acqua dolce ha potuto prendere agevolmente piede e svilupparsi abbondantemente nel mantovano. Il luccio in salsa è il “secondo” che maggiormente caratterizza la tradizione gastronomica mantovana ed è generalmente accompagnato da fette di polenta abbrustolita; accostamento insolito per il pesce d’acqua dolce ma al quale i mantovani difficilmente sanno rinunciare anche per antica tradizioneIngredientiLuccio di circa 1kg, Farina fioretto 200g, Bicchiere di vino bianco 1, Costa di sedano, carota 1, Mezza cipolla, capperi, peperoncini sott’aceto, aglio, prezzemolo, acciughe sotto sale, olio q.b ProcedimentoPulire e lavare il luccio. Lessarlo mettendolo in pentola quando l’acqua è calda ma non bollente; aggiungere il vino bianco, la mezza cipolla, la carota e una costa di sedano. Preparare la salsa tritando insieme uno spicchio d’aglio, il prezzemolo, 6 acciughe sotto sale diliscate, un cucchiaio di capperi e 6 peperoncini verdi sott’aceto; il tutto amalgamato con olio extra vergine d’oliva. Quando il luccio sarà cotto, diliscarlo, filettarlo e metterlo in un piatto di portata coperto della salsa. Farlo riposare almeno un paio d’ore al fresco per insaporirlo meglio. Tratto da “Parco del Mincio“

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