Piemonte

Vini

Asti DOCG

Arriva dal Mediterraneo orientale questo vitigno chiamato Apianae dai Romani per la sua particolare dolcezza, prediletta dalle api. A partire dal Medio Evo accompagnò la tavola dei principi con il nome di Moscatello o Greco. Nel ‘500 venne messa a punto la tecnica di preparazione del vino dolce e aromatico, un secolo dopo quella per il mantenimento della spuma nel vetro robusto, mentre fu Carlo Gancia nella seconda metà dell’800 a portare dalla Francia la rifermentazione in bottiglia. I terreni a prevalenza calcarea, argillosa o sabbiosa della zona di produzione garantiscono alle uve la migliore espressione qualitativa, soprattutto aromatica. Descrizione: Spuma fine, persistente (Spumante anche M. C.). Colore da giallo paglierino a dorato assai tenue (Spumante, anche M.C.) o più o meno intenso (Moscato), giallo dorato (V.T.). Odore caratteristico, delicato (Spumante) e spiccato (M.C.), caratteristico e fragrante di Moscato (Moscato), fruttato, molto intenso, caratteristico dell’uva appassita con note speziate (Vendemmia Tardiva). Sapore aromatico, caratteristico, dolce e equilibrato (Spumante, anche M.C.) o talvolta vivace (Moscato d’Asti), dolce, armonico, vellutato con sentori di uva Moscato che ricorda il favo del miele (V.T.). Titolo alcol. minimo: 9% (Spumante), 11% (M.C.), 10% (Moscato), 12% (V.T.). Abbinamenti: dolci lievitati e alla crema, panettone, crostata di frutta bianca. Vitigni: Moscato bianco 100% Disciplinare: Approvato DOC con DPR 09.07.67 (GU 199 – 09.09.1967), poi Approvato DOCG con DM29.11.93 (GU 287 – 07.12.1993)

Ricette, Tradizioni

I Rabaton della Fraschetta

Il Rabatón è un piatto primaverile, in particolar modo del periodo pasquale, che era il momento della rinascita negli orti e nei campi, delle bietole da taglio , delle insalate, delle ortiche, ecc..ecc.., coincideva con l’arrivo dei pastori che dopo aver svernato in pianura e prima dell’alpeggio passavano per le case proponendo u sirass (la ricotta), se mancava la ricotta si usava la mascherpa, latte rappreso con l’aiuto di acqua e aceto, infine le uova, che le galline riprendevano a deporre dopo il fermo invernale.Il Rabaton (PAT) è un piatto contadino della pianura tra Alessandria e Tortona che prende il nome dal gesto che si fa per formare degli gnocchetti schiacciando e arrotolando tra le mani o su un piano di legno una piccola quantità di impasto (dal dialetto “rabatare” “rotolare”). Da un’amalgama di bietole lessate e tritate, ricotta fresca, uova, pangrattato, farina, grana grattugiato, sale e pepe, si ricavano rotolini lunghi quattro centimetri e spessi uno. Si possono consumare in brodo oppure scolati conditi con abbondante burro soffritto con aglio e salvia e con altro formaggio e passati a gratinare in forno.Ingredienti per 4 persone:250 g di ricotta scolata)800 g di biete2 cucchiai di maggiorana1/2 cucchiaio di prezzemolo1 spicchio di aglio80 g di Parmigiano Reggiano2 cucchiai di pangrattato2 uova6 cucchiai di farina 0050 g di burronoce moscata q.b.sale e pepe q.b.Descrizione:Mondare le biete, lessarle in acqua bollente salata e scolarle in acqua e ghiaccio per mantenerne cottura e colore e poi ricavarne circa 400 g strizzandole bene.Nel frattempo, far sgocciolare la ricotta dal suo latte.A questo punto, saltare le biete in padella con una noce di burro e uno spicchio di aglio e tritarle finemente.Mettere le bietole tritate in una ciotola e aggiungervi il prezzemolo e la maggiorana tritati, la ricotta sgocciolata, 40 g di parmigiano, il pangrattato, un uovo e un tuorlo e amalgamare il tutto regolando di sale, pepe e noce moscata. L’impasto non dovrà essere né troppo asciutto né troppo morbido.Adesso, formare i rabatòn con le mani ricavando una sorta di mezzo sigaro lungo circa 4 centimetri, dal diametro di 3 o 4 centimetri. Ci si può aiutare con la farina per arrotolarli.Lessare i rabatòn in abbondante acqua salata fino a che non risalgono in superficie, come si fa per gli gnocchi e i ravioli.Una volta cotti, i rabatòn possono essere messi in una pirofila imburrata, aggiungere il parmigiano grattugiato, il burro rimasto e far gratinare in forno caldo a 190-200°C per circa un quarto d’ora

I Tipici

Crudo di Cuneo DOP

La zona di produzione ha da secoli una vocazione all’allevamento dei suini e alla lavorazione delle loro carni. I prodotti ottenuti, fra cui i prosciutti, hanno rappresentato una fonte alimentare insostituibile sia per l’apporto proteico che per i grassi, essendo l’area priva di fonti alternative quali l’olivo. Gli innumerevoli conventi e abbazie presenti sul territorio possedevano allevamenti e destinavano locali alla macellazione e lavorazione delle carni suine. Frammenti di libri contabili del Monastero degli Agostiniani di Fossano – Cussanio, del 1630 circa, parlano della stagionatura dei prosciutti nella “stanza del paradiso”, della destinazione della “noce” (parte nobile) per la tavola del vescovo e dell’abate e del “fiore” ai frati anziani e alle persone degne di riguardo. Il microclima condizionato da una parte dalle correnti d’aria tiepide e secche che salgono dalla Liguria e dalla Provenza e dall’altra dalle correnti d’aria che scendono dalla Val Susa creando una sorta di barriera ventosa, garantisce condizioni di bassa umidità relativa che, insieme alle escursioni termiche stagionali e giornaliere, contribuiscono in modo peculiare nella fase di stagionatura, agendo sul sapore e sull’odore caratteristico del prodotto. Il tempo di stagionatura minimo è di 10 mesi dall’inizio lavorazione, il peso compreso fra 7 e 10 Kg a stagionatura ultimata.

Vini

Barolo DOCG

Nasce nel cuore delle colline di Langa, a pochi chilometri a sud della città di Alba, in un suggestivo itinerario di colline cesellate dalla mano esperta dell’uomo e sorvegliate da imponenti castelli medioevali. La prima citazione del “Barol” risale al 1751 e, sempre nello stesso periodo, una relazione agraria informa che il maggior reddito dell’omonimo comune deriva dal vino e dalle vigne ben coltivate. Vini buoni ma ancora mal vinificati e dolciastri, finché nell’Ottocento la marchesa Falletti di Barolo non chiama dalla Francia l’enologo francese Louid Oudart a correggerne gli errori di vinificazione. E’ nelle tenute del padre che Cavour inizia la sperimentazione viticola ed è dal castello di Grinzane che nel 1848 escono le prime 100 bottiglie di “vino vecchio 1844”, opera di Oudart e progenitrici del moderno Barolo. Descrizione: Colore rosso granato. Odore intenso e caratteristico. Sapore asciutto, pieno, armonico. Titolo alcol. min. 13%. Invecchiamento obbligatorio minimo di 36 mesi (60 per la Riserva), di cui 24 in botti di rovere o castagno, talvolta in barriques, ma può stare in bottiglia anche oltre i 20 anni evolvendosi ancora. Abbinamenti: arrosti di carne rossa, brasati, cacciagione, selvaggina, cibi tartufati, formaggi a pasta dura e stagionati. Ottimo anche come vino da meditazione e il Barolo chinato con il cioccolato. Tipologie: Barolo, Barolo Riserva, Barolo e Barolo Riserva con una delle “menzioni geografiche aggiuntive” alle quali può essere aggiunta la menzione “vigna” seguita dal relativo toponimo o nome tradizionale. La denominazione «Barolo chinato» è consentita per i vini aromatizzati con base di vino «Barolo». Vitigni: Nebbiolo 100% Disciplinare: Approvato DOC con DPR 23.04.1966 (G.U.146 – 15.6.1966), poi approvato DOCG con DPR 01.07.1980 (GU 21 – 22.01.1981)

I Tipici

Castelmagno DOP

Il Castelmagno deve il suo nome al comune omonimo della Valle Grana, nelle Alpi Cozie, in Piemonte, dove viene prodotto da tempo immemorabile.Il primo documento ufficiale a registrare l’esistenza e l’apprezzamento del Castelmagno è una sentenza arbitrale del 1277. la sentenza riguarda l’usufrutto dei pascoli delle Grange Martini, nella Comba di Narbona, ai confini tra Castelmagno e Celle Macra.Nella controversia, il comune di Castelmagno ebbe la peggio ed il prezzo della sconfitta impose il pagamento di alcune forme di formaggio come canone annuo da versare al marchese di Saluzzo.Apprezzato per la sua qualità, fin dalle sue origini, è stato però riscoperto a livello nazionale ed internazionale solo in anni recenti grazie all’opera di razionalizzazione e standardizzazione delle tecniche di produzione che, seppur tramandate da secoli nelle loro linee generali, restano completamente artigianali e registrano molte varianti legate ai luoghi, ai tempi e ai metodi di lavorazione adottati dai singoli produttori che pur riducendosi di numero, raffinano e migliorano le tecniche di lavorazione del Castelmagno, adoperandosi per una più attenta tutela del marchio.Oggi, la zona di produzione e stagionatura – da cui deve provenire anche il latte destinato alla trasformazione – è rigorosamente limitata, dal disciplinare di produzione, ai tre comuni dell’alta valle: Castelmagno appunto, Pradleves e Monterosso Grana. Le caratteristiche del Castelmagno sono legate all’origine della materia prima, al luogo e al metodo di trasformazione.La particolare varietà e la fragranza delle erbe presenti nei pascoli – caratterizzati da una flora costituita da graminacee dei generi Poa e Festuca – dell’alta valle Grana costituiscono il presupposto fondamentale per comprendere appieno la qualità, il sapore e il profumo di questo eccellente prodotto caseario .Il latte proviene da vacche appartenenti alle razze tipiche dell’arco alpino in particolare la Piemontese, la Bruna Alpina e le varie Pezzate Rosse.Il latte destinato alla produzione del Castelmagno deve essere esclusivamente crudo e proveniente da un minimo di due a un massimo di quattro mungiture consecutive (al quale possono essere aggiunte piccole quantità di latte ovino o caprino).Dopo l’eventuale scrematura per affioramento, va riscaldato alla temperatura di 30-38 °C la coagulazione avviene in un tempo tra i 30 e i 90 minuti.Quando il coagulo ha raggiunto un sufficiente grado di rassodamento lo si rivolta. Successivamente lo si rompe mantenendolo sempre all’interno del siero di lavorazione chiamato tradizionalmente “la laità”.La rottura successiva viene effettuata dapprima grossolanamente e poi in modo sempre più fine sino ad ottenere granuli caseosi omogenei delle dimensioni da un chicco di mais a nocciola.La cagliata viene messa in una tela asciutta e pulita chiamata “risola” in tessuto vegetale o sintetico. La risola va poi eventualmente pressata e appesa oppure appoggiata su un piano inclinato. Si lascia, quindi, riposare per almeno 18 ore, necessarie perché il siero residuo fuoriesca senza l’azione di pressature.Trascorso questo periodo la cagliata viene messa in recipienti immersa nel siero che con il passare delle ore potrà diminuire ed infine coperta per un periodo che va dai 2 ai 4 giorni.Successivamente viene rotta e poi finemente tritata, rimescolata e salata.Il prodotto viene avvolto in una tela di tessuto vegetale o sintetico ed introdotta nelle “fascelle” di formatura in legno o altro materiale idoneo ove rimane per almeno 1 giorno ad una adeguata pressatura manuale o meccanica. Sulla base delle favelle viene posizionata una matrice recante il marchio di origine che sarà impressionato sulla forma.È consentita un’ulteriore salatura delle forme a secco per dare colore e consistenza alla crosta del formaggio.La maturazione avviene in grotte naturali ed umide o comunque in locali che ripetano dette condizioni ambientali per un periodo minimo di 60 giorni su assi di legno o altro materiale idoneo.Il formaggio Castelmagno prodotto e stagionato può portare la menzione aggiuntiva “di Alpeggio” se: il latte proviene esclusivamente da vacche, capre e pecore mantenute al pascolo in alpeggio per il periodo compreso tra maggio e ottobre e la caseificazione è effettuata in malga. Disciplinare: Reg. CE n. 1263 del 01.07.96 (GUCE L 163 del 02.07.96) fonte comunità montana vallegrana

Vini

Barbaresco DOCG

La coltivazione del Nebbiolo in questa zona ha origini molto antiche: secondo alcuni autori furono i Galli i primi ad essere attratti dal vino Barbaritium, secondo altri deriva il suo nome dai Barbari che causarono la caduta dell’Impero Romano. Nel 1984 Domenico Cavazza fonda la Cantina Sociale di Barbaresco dove vengono vinificati 858,9 miriagrammi di Nebbiolo, dando vita ad un vino che con il Barolo condivide le varietà di vitigno (lampià, rosé, michet) ma ha un invecchiamento inferiore. Il Barbaresco nasce nelle Langhe, dove le marne tufacee di un colore grigio-bluastro danno luogo a colline rotondeggianti favorevoli alla coltivazione della vite, ma ha anime diverse legate alle differenti caratteristiche dei terreni: dai colli intorno a Treiso, più alti e stretti, che consentono la coltivazione solo nelle zone con migliore esposizione e danno vini con maggiore finezza ed eleganza, a quelli di Barbaresco e Neive da cui nascono vini caratterizzati da una parte da struttura, pienezza tannica e potenza, dall’altra da morbidezza, ricchezza fruttata e finezza, con veri e propri cru come Gallina e Santo Stefano. Descrizione: Colore rosso granato. Odore intenso e caratteristico. Sapore asciutto, pieno, armonico. Titolo alcol. min. 12,5%. Con almeno 2 anni di affinamento, di cui almeno 1 in botte di rovere o castagno (4 per la Riserva), vanta un bouquet di eccezionale finezza e armonia ed un gusto robusto. Abbinamenti: primi piatti a base di tartufo bianco e funghi porcini, grandi arrosti, brasati, selvaggina anche in umido, formaggi stagionati o piccanti. Tipologie: Barbaresco, Barbaresco Riserva, Barbaresco e Barbaresco Riserva con una delle «menzioni geografiche aggiuntive» alle quali può essere aggiunta la menzione «vigna» seguita dal relativo toponimo. Vitigni: Nebbiolo 100%. Disciplinare: Approvato DOC con DPR 23.04.1966 (G.U.145-14.06.1966), poi approvato DOCG con DPR 03.10.1980 (G.U. 242 – 03.09.1981)

Vini

Carema DOC

Già i Romani a Carema producevano un ottimo vino e alla fine del Cinquecento il medico Andrea Bacci, nel suo libro ‘De naturalis historia vinorum’, lo cita tra i vini migliori ricordandone l’ammissione alla Corte dei Savoia. Sulle rocce moreniche del monte Maletto, tra i 350 e 700 m di altitudine, la sua coltura si è sviluppata caparbiamente nel tempo grazie al duro lavoro dei vignaioli, che diverse volte hanno dovuto ricostruito la collina trasportando il terriccio, sostenendolo con opere in muratura e reimpiantando i vigneti che erano scivolati a valle. I caratteristici muretti a secco (topion) e pilastri in pietra, oltre a catturare i raggi del sole rilasciandoli poi alle viti nel periodo notturno, sono un vero e proprio vanto architettonico e da sempre garantiscono la giusta maturazione delle due varietà locali (il Picutener e il Prugnet) di Nebbiolo, forse così chiamato per l’epoca tardiva di vendemmia quando già le prime nebbie avvolgono i filari ai confini della Val d’Aosta.Descrizione:  Colore rosso rubino tendente al granato (Carema), rosso granato (Carema Riserva). Odore fine e caratteristico (Carema Riserva) e che ricorda la rosa macerata (Carema). Sapore morbido, vellutato, corposo (Carema e Carema Riserva). Titolo alcol. minimo 12% (Carema e Carema Riserva). Invecchiamento minimo di 2 anni (di cui 12 mesi in legno di rovere o castagno), 3 per la Riserva. Abbinamenti:  minestre asciutte con salse rilevate, risotti con funghi, carni rosse e selvaggina, stracotto di cavallo, salumi, formaggi stagionati.Disciplinare:  approvato DOC con DPR 09.07.1967 (G.U. 199 – 09.08.1967)Tipologie:  Carema e Carema Riserva.Vitigni:  Nebbiolo 85-100%, Altri vitigni piemontesi a bacca rossa non aromatici 0-15%.

I Tipici

Riso di Baraggia DOP

L’indicazione D.O.P. «Riso di Baraggia Biellese e Vercellese» si riferisce a diverse varietà del cereale della specie Oryza sativa L. ottenuto mediante l’elaborazione del riso grezzo o risone a riso «integrale», «raffinato» e «parboiled». Il Riso di Baraggia Biellese e Vercellese si distingue per la tenuta alla cottura, superiore consistenza e modesta collosità caratteristiche attribuibili tra l’altro a rese più basse e cicli vegetativi più lunghi rispetto a quelli rinvenibili in altre zone.La coltivazione del riso nell’area delimitata della Baraggia si ritrova agli inizi del XVI secolo ed ha riscontri anche in atti notarili dell’anno 1606 nel Comune di Salussola. In epoche successive, la specificità del riso fu descritta per circa 50 anni nel «Giornale di Risicoltura», edito dall’ex Istituto Sperimentale di Risicoltura di Vercelli, che riportò frequentemente articoli tecnico scientifici per motivare le peculiari caratteristiche del prodotto e dell’area di baraggia. Lo stesso Istituto, nel 1931, acquisì al centro della Baraggia un’azienda risicola utilizzandola quale centro di ricerca allo scopo di perfezionare le specificità di produzione dell’area baraggiva.Anche l’Ente Nazionale Risi, nella rivista «Il Riso», in diversi articoli sottolineava le peculiari caratteristiche di qualità del riso prodotto in quest’ area. L’area di produzione si caratterizza infatti per la difficoltà di livellamento dei terreni per la particolare struttura argilloso-ferrosa che determina anche differenziate condizioni di sommersione, oltre al clima caratterizzato da mesi estivi piuttosto freschi nonché da frequenti inversioni termiche favorite dall’ingresso dei venti che discendono dai monti. Inoltre la presenza di acque fredde nella zona, situata ai piedi delle Alpi, fa si che questa zona sia la prima ad essere irrigata dai torrenti di montagna.

Ricette, Tradizioni

Lepre al civet

Questa particolare pietanza piemontese, si cucina tradizionalmente anche con il coniglio, il capriolo, il camoscio e il cinghiale e viene servito con polenta o patate bollite. Per la marinataIn una terrina: lepre a pezzi, 8 grani di pepe nero, 1 foglia di alloro, 1 rametto di timo, 2 o 3 grani di ginepro, 5 ciuffetti di prezzemolo, 1 cipolla a pezzetti, 2 spicchi d’aglio, 1 gambo di sedano e 1 carota tagliata a rondelle. Coprire con vino rosso e lasciare marinare per due giorni.ProcedimentoTogliete i pezzi di carne dalla marinata. Scolate le verdure e mettetele da parte. Asciugate i pezzi di lepre e rosolateli in una pentola da stufato con poco burro fuso. Spolverateli con una spruzzata di farina. Aggiungete sale, pepe, un bouquet garni e le verdure. Ricoprite la carne con il vino della marinata e portate a bollore. Abbassate il fuoco e cuocete dolcemente per due ore. Verso la fine cottura si aggiunge il sangue fatto sciogliere sul fuoco.A cottura ultimata, togliete la carne, ponetela su un piatto e frullate il sugo. Rimettete il tutto nella pentola e fate scaldare per pochi minuti prima di servire con un contorno di patate o polenta.

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